LAURA NOVELLI | E’ nel grido finale di Bobò, nel mistero del suo silenzio da sordomuto rotto da una voce che sembra issata tra cielo e terra come una straziante e poetica divergenza, che lo spettacolo/concerto Il sangue di Pippo Delbono e Petra Magoni trova il tassello più emblematico di un mosaico di emozioni e suggestioni dai richiami ancestrali e atavici. Il palcoscenico della Sala Patrassi dell’Auditorium di Roma apparirebbe fin troppo grande per questo duetto vocale e recitativo (accompagnato dalla preziosa maestria della strumentista Ilaria Fantin) se non fosse per quell’ometto piccolo e indifeso che se ne sta seduto di lato, nella semioscurità, fino all’epilogo. E che fino all’epilogo ci chiede di trovare una ragione della sua presenza/assenza. Quando si avvicina alla Magoni – anche qui straordinaria interprete del repertorio antico, rock e pop – e le si siede accanto, risuonano ancora le note di Disamistade di Fabrizio De Andrè e il coro si fa unanime bisogno di conforto. Forse, di accoglienza. Di riparo. Perché in fondo ciò che davvero Delbono (neodirettore artistico di Asti Teatro e impegnato in una serie di importanti progetti artistici, www.pippodelbono.it) esplora in questo recital dai lineamenti tragici, ma dalla sostanza malinconica e dolce, è proprio la ricerca di un “luogo” dell’anima dove approdare dopo aver vagabondato tra la vita e la morte, gli affetti trovati e quelli persi, le scelte giuste e quelle sbagliate, gli atti di coraggio e quelli di codardia.
Punto di partenza, l’Edipo a Colono di Sofocle. La cecità di un figlio/marito assassino (involontario) del padre e della madre (a sua volta madre dei suoi stessi figli) che, spogliato di quella necessità tragica di cui è intriso il mito greco, si trasforma in un cieco vagabondo di ogni tempo e ogni dove alle prese con il suo viaggio terreno, sofferente e carnale, verso il buio eterno. L’esule Edipo siamo noi. Siamo tutti noi.
Ma non c’è accanimento o rabbia in questa partitura antica di lamenti, domande, paure. Piuttosto, una lingua quasi soffice (merito ovviamente anche della traduzione e dell’adattamento), che ben si intreccia con altri riferimenti testuali e autobiografici (tra cui una canzone popolare che il padre cantava a Pippo bambino) e che cuce insieme con avvolgente armonia i brani canori: un’attenta selezione di melodie rinascimentali (a firma di quei geniali Peri, Caccini e Monteverdi che furono ingegneri di strutture melodiche a canone, di madrigali, di sperimentazioni proto-operistiche) e moderne (da Cohen alla O’Connor fino al nostro De Andrè) reinterpretate dalla Magoni con una tavolozza espressiva davvero superba. A cadenzare il tutto ci pensano poi il liuto, l’opharoin, l’oud e la chitarra elettrica della brava Fantin.
Dunque, la classicità si connette qui ad un respiro umano ampio, universale, empatico. Si avverte un’atmosfera composta di lamento funebre. Un raffinato gioco di rincorse emotive. Un voler ritornare su temi cari – la morte, il dolore, l’erranza – con uno sguardo pietoso e antiprovocatorio. L’unica provocazione forte è forse proprio il corpo/voce di Bobò finale; la sua diversità ancora una volta vettore di umanità, di “esilio” imperscrutabile ma eloquente. Una provocazione dolente e poetica essa stessa. Perché se è vero che “il dolore degli altri è un dolore a metà”, è anche vero che solo guardando la vita da altre prospettive, da storie “diverse”, da strade lontane, possiamo sopportare la fatica di essere sospesi tra cielo e terra.