La società musella mazzarelliRENZO FRANCABANDERA | La triste considerazione del potere di coercizione e di demolizione sul sogno individuale e creativo di gioventù che può avere il consesso sociale ha in questi giorni a Milano non solo la declinazione imponente dell’allestimento di Marthaler al Piccolo Teatro, ma anche la coraggiosa, economica e avvincente lettura che Lino Musella e Paolo Mazzarelli hanno costruito con La società, in scena al Filodrammatici fino a domenica 13, di cui firmano drammaturgia e regia.
Ad un appassionato di teatro scapperebbe la battuta che alla badante esteuropea si addice il flashback, ricordando un altro esito scenico felice di qualche anno fa, per la regia di Cesare Lievi, che raccontava di come una badante si costruiva la fiducia della sua signora e le restituiva in vecchiaia un rapporto di umanità assai più intenso di quello che le avevano riservato i figli.
Qui la badante c’è, e lo stesso è presente uno schema drammaturgico di flashback fra i tre atti in cui il lavoro è diviso, ma il focus è altrove e i due lavori, se non per le due coincidenze, non hanno elementi di comparazione se non questo se souvenir des belles choses.
Qui la vicenda è su tre giovani (Fabio Monti nella parte del sognatore poverilluso, Paolo Mazzarelli il neo-arrivista, Lino Musella l’opportunista) spinti dallo zio di uno di loro, dal mitologico nome di Omero, quindi fondamentalmente da nessuno se non da loro stessi, da un pretesto invisibile, a condividere la gestione di un locale, impresa che in questi tempi si fa interrogativo anche nel mondo dell’arte, con un revival di autogestioni, beni comuni, e spazi di socialità talvolta in bilico fra il think tank e il beer shop.
I tre devono decidere come governarlo, e l’età, la società, le esigenze, spingeranno uno di loro ad allontanarsi dalla originaria missione sognatrice, per abbracciare un ideale più manageriale e commerciale. Il dissidio sarà estremo e travolgerà tutto e tutti, compresa la badante (Laura Graziosi), figura ancillare ma non secondaria, che diventa silenzioso metronomo per tutta la recita.
La parola ad incastro, il ritmo scenico travolgente e senza momenti di stanca o intellettualismi inutili, la vicenda pulita e mai banale, l’umorismo felice e non sforzato, non cercato negli occhi del pubblico da far abboccare all’amo, sono le vere ricchezze di una creazione felice, che si anima di un respiro quasi eduardiano, vivificando quella tradizione del teatro italiano che per fortuna, scopriamo non essersi dispersa del tutto.
Che poi che significa tradizione oggi a teatro? Fondamentalmente è quando la storia si capisce, quando la vicenda arriva alla fine senza perdersi in derive onirico-pulp, senza intingersi in quel sughettino, che ormai fa molto anni 90, quella guazza esteticheggiante di movimenti performativ-incomprensibili che ti fa uscire di sala senza sapere che ne sarà del tuo personaggio a cui per mezz’ora – tre quarti ti eri affezionato, e che poi hai visto scomparire dietro una parrucca viola o una maschera di carnevale, sommerso da confessioni ansimanti al microfono, magari con un po’ di scenografia che cade a pezzi e una luce che abbaglia il pubblico.
Non che si voglia banalizzare, ma santiddio, è una goduria uscire di sala avendo assistito ad un lavoro che porta in sé la  ricerca drammaturgica, con un testo cesellato alla battuta, l’onestà di un impegno attorale di primo livello, che lo spettatore gode con la perizia raffinatissima di Musella, con la concentrazione e l’equilibrio ostinato della Graziosi, e con l’esperienza viva e opposta di Monti e Mazzarelli. E non manca persino la bizzarria, la trovata geniale, come il coro grammelot nell’ultimo atto, vera e propria chicca che vale da sola il biglietto, e che ricollega La società alle riflessioni dolci-amare in stile Monicelli, Amici Miei, quei pensieri su come la vita ti cambia e può portarti, di risata in risata alla canna del gas, andata e ritorno.
Da vedere, sostenere, e segnalare per qualche premio, se ne avanzano a quelli della Società.

1 COMMENT

Comments are closed.