ALESSANDRO MASTANDREA | Chi ha detto che l’Italia è incapace di innovazioni? In campo televisivo lo è eccome, pur non rinnegando, come nel caso della RAI, la propria tradizione di servizio pubblico. La TV nutre da sempre un forte interesse per le tragedie ma si dimostra assai sensibile anche alla vita e le opere dell’uomo comune, meglio se specializzato in attività buone per il genere tanto in voga dei talent show. Una televisione delle arti e dei mestieri, purché presentabile all’interno della cornice televisiva.
Ed è sotto questa luce che va letta l’esperienza, conclusa da qualche settimana, di Masterpiece, il primo talent show pensato per scoprire il caso letterario del decennio. Idea tutta italiana, nella quale autori del calibro di Edoardo Camurri e Massimo De Cataldo, hanno tentato di conciliare l’anima pedagogica di Alberto Manzi, allo spirito televisivo del tempo, concedendo qualcosa ai format di consumo, sempre buoni per l’esportazione. In fatto di innovazione MP è una sorta di fusione a freddo, di assemblaggio di parti anatomiche provenienti da corpi (media) differenti, applicando le regole dell’uno alla materia dell’altro. Una fusione tra i caratteri a stampa di Gutenberg e la TV del nuovo millennio, quella delle prove a tempo e degli stress test. Poco importa se, nel caso specifico, l’esito di queste prove salti fuori da una stampante digitale – sorta di monolite kubrickiano da cui dipendono i destini dei concorrenti – ben lontana dalle analogiche macchine tipografiche, o magari i complimenti per la trasmissione viaggino via Twit alla velocità della luce, anziché per posta cartacea.
Nel villaggio globale di questi giorni post-moderni, la TV è soprattutto contaminazione, anche tra media caldi e media freddi, per citare McLuhan. Gli esperimenti, tuttavia, soprattutto quelli dalle pretese troppo ardite, tanto più interessano gli addetti ai lavori, tanto meno gli spettatori: con lo share che a fatica ha raggiunto la soglia del 3%.
Essere o non essere? Popolare o colto? Dilaniata dal dubbio, la trasmissione è sembrata indecisa se abbracciare la propria vocazione alta e letteraria, oppure quella meno pregiata, ma più spettacolare, dei talent. Con l’ambizione per i grandi ascolti, capita ad esempio che Masterpiece saccheggi topos televisivi a piene mani: partendo dal nome del programma dal retrogusto così culinario, fino ad arrivare all’impianto liturgico e al tris di giudici, vero e proprio codice espressivo di genere. Ciascuno dotato di una propria specificità, Taye Selasi, Andrea De Carlo e Giancarlo De Cataldo, alquanto ricordano i tre pistoleri dei western di Sergio Leone, con la parte del cattivo appannaggio del solo De Carlo. Sempre uniti e solerti nel giudizio insindacabile sulle fatiche dei concorrenti, magnanimi e comprensivi se l’occasione e l’umore del momento lo concedono, ma anche incondizionatamente spietati nei confronti di coloro che peccano di una certa alterigia. Pare, inoltre, che i format declinati all’italiana abbiano una peculiarità in più: quella cioè di dotarsi di un giudice che non abbia particolare dimestichezza con il lemma nostrano, mentre invece si trovi particolarmente a proprio agio nel lancio di artefatti, segno inequivocabile di massima disapprovazione nei confronti del concorrente.
Sono le motivazioni dei partecipanti, tuttavia, a definire il nocciolo primario anche di questo talent. Solitamente divisi in due categorie, da una parte vi sono coloro che sono spinti dalla necessità di colmare una mancanza, un disequilibrio esistenziale, di avere una seconda opportunità per cambiare la propria vita, come dall’altra vi sono quelli spinti da una sorta di vocazione al successo, di vera e propria predestinazione. Se in MP il numero degli appartenenti al primo gruppo è maggiore, forse per l’età media non proprio bassa ma anche per la mancanza cronica di opportunità di cui soffre il nostro Paese, quelli del secondo compensano per determinazione e tensione agonistica. Tra tutti però l’ha spuntata l’outsider Nicola Savic, che non si è lasciato sfuggire l’opportunità del nuovo inizio, vincendo la puntata finale col suo “Vita Migliore”, romanzo stampato in centomila copie da Bompiani. Per un ragazzo di origine serba, in un’Italia con un tasso di disoccupazione giovanile al 41%, una bella dimostrazione di integrazione. Peccato si tratti solo di TV.
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