orphansVINCENZO SARDELLI | Orfani di genitori. Orfani soprattutto di valori. Sono i protagonisti di Orphans, pièce teatrale di Dennis Kelly che abbiamo visto allo Spazio Tertulliano di Milano, con Alice Redini, Dario Merlini e Umberto Terruso. Lo spettacolo, con regia di Luca Ligato, presenta le nevrosi di due fratelli verso la trentina legati da un rapporto disfunzionale, un’infanzia trascorsa all’orfanotrofio, chiusi in quel che resta della loro famiglia d’origine. Complici, fino alla collusione.

La scena è una tavola imbandita, sedie e tavolo bianchi. Bianchi come l’intreccio di corde sullo sfondo, intrico, intrigo, ragnatela mortifera. Come la patina di rispettabilità che avvolge il loro tranquillo milieu borghese.

Danny ed Helen, una giovane coppia in dolce (con una punta d’agro) attesa, si accingono a cenare. Irrompe Liam, fratello di lei, agitatissimo, la maglietta sporca di sangue. Qualcuno è ferito, potrebbe essere morto. Che fare? Prestargli soccorso? Chiamare la polizia? Far finta di niente? Soprattutto: qual è il ruolo di Liam nella vicenda?

Inizia un estenuante scaricabarile, un palleggio di ricatti morali che cristallizza la situazione allo status quo. La maglietta di Liam scaraventata in lavatrice, con tanto d’occultamento delle prove del reato, è metafora di una realtà ipocrita avvitata in se stessa. Liam nasconde scheletri nell’armadio, ma anche sorella e cognato non scherzano: i suoi sono solo più smaccati.

Ognuno cela un lato sordido. Ognuno si adegua al cinismo altrui. È un “armiamoci e partite” della moralità. Anche il cibo è allegoria di rimorsi da soffocare: una mangiata li seppellirà.

La coscienza abbrutita porta i protagonisti alla quiescente accettazione del peccato: si chiama omissione. Ognuno delega, tutti lasciano la palla a tutti. Danny prova a uscirne, ma è uno slancio morale velleitario. Rinuncia: per quieto vivere, per tiepidezza, perché assorbito negli ingranaggi al ribasso dei due fratelli. Prevale la scelta di non osare. L’adeguamento è resa, è colpa. La verità viene a galla, con un retroterra di violenza, qualunquismo, sospetti e razzismo. In questa famiglia mettere al mondo un figlio non sarebbe dono ma coazione a ripetere.

Questo testo ha qualcosa della catarsi delle tragedie classiche: rifiutiamo l’abiezione, l’ipocrisia, il cinismo mascherato da pietas familiare. Ma la qualità globale dello spettacolo non convince. I dialoghi saranno pure realistici, ma anche ripetitivi, soprattutto ai fini di una drammaturgia. I protagonisti sono schematici, privi di sfumature, prevedibili. Tipi, più che personaggi: il contrario della bugia non è la verità, ma la complessità. La stessa recitazione, i gesti, sono meccanici. Non emerge questo grande amalgama tra gli attori, che ogni tanto provano a regalare la vibrazione di pancia, con accessi d’ira inconsulti e scoppi passionali che appaiono però premeditati, poco spontanei. La regia è senza sussulti, partendo dai suoni e dalle luci.

C’è spazio per la catarsi, riflettiamo su una società contemporanea in via d’implosione. Le emozioni, però, sono un’altra cosa.

3 COMMENTS

  1. ….forse il fatto di non dare emozioni fa parte della ricetta del cinismo del quadro sociale
    dico forse….

  2. E’ senz’altro come dici tu, Grazia. Ma il limite di queste drammaturgie contemporanee, rispetto a quelle classiche, è il fatto che i personaggi e le loro battute sono un po’ troppo monocordi.

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