VINCENZO SARDELLI | C’è un modo di presentare la disabilità come iattura e angoscia, con accenti di pietismo e quel po’ di recriminazione. C’è un modo di vivere la disabilità come sfida, realtà che ci appartiene senza deformarci o umiliarci, e ci rende unici. Nel monologo Più forte del destino, tratto dall’omonimo libro pubblicato nel 2012 da Mondadori, Antonella Ferrari mette in scena il proprio rapporto con la sclerosi multipla. Sorridendo della sorte. Compensando i limiti imposti dalla salute con la determinazione propria, e l’affetto delle persone care.
Antonella Ferrari è ambasciatrice di un’umanità che non si arrende, e anzi rilancia. È al fianco di altri personaggi pubblici impegnati sullo stesso versante, come Alex Zanardi, disabili eppure capaci di eccellere in ambiti diversi, dallo spettacolo allo sport.
Tra camici e paillette la mia lotta alla sclerosi multipla, è il sottotitolo del monologo che abbiamo visto al Teatro Litta di Milano, con la regia di Arturo di Tullio.
Ferrari tratta con leggerezza e ironia un tema sociale delicato, alla larga da autocommiserazione, e registri drammatici. È toccante, commuove. Attinge a una poetica dell’intelligenza emotiva e relazionale.
Evocativa la scenografia, uno schermo su cui sono proiettate immagini varie, una gigantesca ragnatela dove sono fissati oggetti di un passato remoto eppure vivo: una coperta, una bicicletta, un cestino con le foto, una bambola, pattini da ghiaccio, una vecchia radio. I ricordi sono la filigrana della vita. Narrano storie. Segnano valori, successi, cadute, ciò che abbiamo saputo costruire. La ragnatela è trappola, esca mortifera. Ma è anche la tela delle nostre esperienze. È utile posarvi lo sguardo, per sapere chi siamo e spingerci avanti. Ecco gli altri oggetti scenici: uno specchio, per testimoniare le tappe della nostra evoluzione; l’attaccapanni, perché ogni giorno siamo chiamati a rimodellarci, cercando nuovi involucri per presentarci al mondo.
La classe di Antonella è la stessa, sul palco e nella vita. Non abbrutirsi, ma curarsi e abbellirsi. Non rinunciare ai vezzi femminili, al trucco, al tacco. Non rassegnarsi. Esorcizzare il vittimismo, il sarcasmo, le invidie altrui.
Dall’alto delle sue stampelle multicolori l’attrice milanese ricorda la propria passione per la danza e la musica, i suoi miti da bambina, Heather Parisi e Lorella Cuccarini. Poi i primi passi nel mondo dello spettacolo, i provini, le porte sbattute in faccia dopo le prime avvisaglie di una malattia aliena e oscura, l’insipienza o la strafottenza dei medici. L’interminabile fila degli esami prima del verdetto: sclerosi multipla. Fanno da contrappunto alla sua performance istrionica voci fuoricampo: la disumanità ghettizza, sospinge in una dimensione remota.
Il teatro diventa l’ascensore per i sogni, lontano dagli stereotipi sensazionalistici della tv, che vorrebbe una donna disabile propensa alla depressione, tradita dal marito, abbandonata dagli amici.
Invece l’amore salva. Può essere quello di un cane, che ti fa festa senza badare che tu sia povero o malato, quello di un padre che t’insegna a rintuzzare le bordate della vita con dignità, quello di un marito che, se ti ha amato in piedi, continuerà ad amarti anche da seduta.
Antonella Ferrari mostra la propria femminilità. Emoziona, è leggera. Colpisce, con estro ed energia. Canta, balla, vibra. Perché, come dice un proverbio afgano, «se tu non hai le gambe, e non diventi campione di corsa, la colpa è soltanto tua».
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