RENZO FRANCABANDERA | L’Italia in campo artistico ha perso prematuramente due grandi menti nel secolo scorso. La prima è stata quella di Umberto Boccioni, la seconda quella di Piero Manzoni. Entrambi nell’intorno dei trent’anni. Entrambi in epoche di turbine artistico internazionale.
Boccioni corse. Precorse. Attraversò il divisionismo, sentì le passioni del fauve e pensò al futurismo nella forma più limpida e avanzata. Tanto avanzata da parere cubismo ben prima di Picasso.
Manzoni corse. Precorse. Attraversò il figurativo nel suo passaggio all’informale, superò la tela intesa come superficie pittorica e visse il periodo di Fontana e la crisi del supporto, verso forme d’arte concettuale di cui fu assoluto e geniale precursore.
Morì 10 anni prima che la video arte diventasse forma di pensiero performativo, ma negli anni in cui Klein faceva lasciare a modelli nudi e intinti nel suo blu le loro impronte su enormi fogli, Manzoni realizzava linee d’inchiostro lunghe kilometri con l’aiuto di rotative da giornale, firmava la propria scarpa (e quella di Mario Schifano) come opera d’arte, vendeva palloncini gonfiati da lui medesimo come respiro d’artista e vendeva merda in scatola a peso d’oro. Lasciava l’impronta delle sue dita intinte nell’inchiostro su uova sode servite poi da mangiare agli spettatori della sua performance. Fu fra i primi a intendere l’arte oltre l’oggetto, come evento, momento effimero di rappresentazione irripetibile tal quale, al confine con il teatrale.
Forse Manzoni, prima di molti altri in Italia, intese l’arte come gesto di pensiero, manifestazione concreta di un immateriale cui però dare forma in modo anticonvenzionale e radicalmente estraneo al sentimento comune: capace di assordare, di disturbare, di lasciare interdetti. Immaginarseli i suoi coevi, sessant’anni fa, ad assistere a sue iniziative che ancor’oggi appaiono rivoluzionarie e potrebbero tranquillamente essere proposte, per modernità reale, in gallerie di ogni dove.
Ecco perché attraversare gli ambienti di cui si compone la bella mostra ospitata fino al 2 Giugno a Palazzo Reale a Milano è un dovere per chiunque voglia anche solo intuire la portata del fare arte nel nostro tempo e cosa significa essere rivoluzione, pensiero e azione performativa.
Lo diciamo da osservatori del fermento che dovrebbe stazionare al crocevia delle arti, e che spesso si nutre di plastificati deja-vu. A 50 anni dalla sua morte, l’iniziativa di Palazzo Reale, in collaborazione con lo Städel Museum di Francoforte, arriva davvero a far luce sull’uomo e sull’artista.
Il percorso, sostanzialmente cronologico, attraversa tutte le fasi creative della sua produzione, conducendo anche il più rigido dei visitatori, che solo avesse voglia e tempo di leggere le didascalie della mostra, a lasciarsi invadere dal pensiero creativo, dalla capacità dell’artista di invogliare al tatto, all’esperimento, a guardare con i polpastrelli, a sentire l’arte come manifestazione tangibile di un creativo primigenio, arrivando a vette di complessità concettuale non banalmente provocatorie, ma davvero primitive e fanciullesche.
Manzoni, infatti, in questo percorso stupisce e urla la sua modernità non solo con le sue opere celebri, quelle che riempiono i libri di storia dell’arte nelle pagine che mai vengono studiate (a prescindere dal fatto che ora non si studia proprio più la storia dell’arte). Manzoni si avvinghia al presente con quelle opere materiche di polistirolo o di pelouche, che ci si ferma a guardare poco dopo aver seguito le impronte dell’artista sui gusci d’uovo o immaginato la linea di 7km, o essersi persi su quelle tele bianche modellate nel gesso a formare senquenze di movimento indescrivibile.
Perché è in quella semplicità tattile, effimera, così glamour e imperitura formalizzata cinquant’anni fa, e che invece ancora oggi piccoli artistoidi del nostro tempo, ignari della storia dell’arte, considerano vette del loro proprio percorso creativo, che si intuisce come Manzoni abbia attraversato la sua epoca guardando oltre la Storia che stava vivendo, comprendendo la relazione e il dilemma ancora contemporanei riguardo i concetti borghesi di “utile” e di “necessario”.
E lui che era riuscito a trasformare un atto necessario, come il defecare, in utile, riuscendo a farlo ritenere gesto d’arte, forse ha da insegnare molto più di qualche predicozzo clerical-politico; utile, anzi necessaria la visita a questa mostra, per toglierci di dosso per un paio d’ore il dramma dell’esistente e proiettare la felicità istantanea in una dimensione davvero di genialità esplosiva, oltre i confini del pornografico di cui si nutre bulimicamente il nostro oggi. Imperdibile.