ph: Andrea Macchia
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GIULIA MURONI | Nello sterminato ventaglio di possibilità del corpo c’è la reazione creativa alla guerra e alla sofferenza. Il corpo umano in condizioni di guerra si dà come soggetto reale, strumento attraverso cui è vissuta l’esperienza bellica e quindi oggetto, bersaglio da abbattere, umiliare, annichilire. Luogo vivo della difesa e dell’offesa, porta i segni della mutilazione o i fregi di vittorie temporanee. Nel corpo sopravvissuto le cicatrici vi disegnano un luogo della memoria.

Abbozzo dello sfaccettato panorama su cui si staglia la danza contemporanea israeliana, ne abbiamo avuto due notevoli esempi alla serata inaugurale di Interplay al Teatro Astra. La prima parte è stata dedicata a The Hill, la nuova creazione di Roy Assaf, il quale ha preso spunto dalla canzone popolare Givat Hatahmoshetche. Il brano, con una base vivace e incalzante, racconta della presa da parte dei paracadutisti israeliani di un avamposto giordano durante la Guerra dei Sei giorni. Benché si sia trattato di una vittoria, l’esercito israeliano ha perso molti uomini e il testo della canzone sottolinea l’amarezza di un traguardo che perde esponenzialmente di senso. Il lavoro di Assaf ha visto un trio maschile, improntato su quella stessa leggerezza ritmica della canzone, mosso da una qualità fisica peculiare, energica e estroversa, capace di dispiegare il movimento in proiezioni importanti. Questo menage à trois maschile fatto di rimandi all’hora israeliana(danza tradizionale), inclusioni, esclusioni e giochi infantili ha costituito un ritratto di una maschilità che non rinnega il gioco e l’emotività. Lo spettacolo si è chiuso un attimo dopo aver raggiunto l’achmè emotivo, risultato finale di un crescendo drammatico inaspettato. Questo gioco, in grado di mutare registro con disinvoltura e di scorrere dal cameratismo ai toni drammatici, è connotato da una fisicità sapiente in grado di dare voce a vicende legate al proprio processo storico, astraendole in una narrazione antinaturalistica di segni del reale.

ph: Andrea Macchia
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Alle 21 è stata la volta di Sharon Fridman, israeliano adottato in Spagna, con Caìda Libre in anteprima nazionale. Lo spettacolo ha portato in scena 6 interpreti della compagnia e 15 partecipanti al laboratorio con il coreografo, i quali hanno costituito una importante cornice entro cui si è sviluppata la drammaturgia. L’istanza centrale su cui si è imperniata la ricerca è quella della sopravvivenza e delle sue implicazioni, a cui viene conferito un continuo movimento dall’alto al basso e viceversa, in un perenne cadere e rialzarsi che intesse l’esistenza umana e che, in questa sua ripetizione costante, va a definirsi in un andamento circolare, lo stesso dell’hora israeliana e di molte danze rituali.  La danza di Fridman è giunta alle conseguenze estreme della contact improvisation, e come nel duo Hasta Donde…?, la tensione e il peso dei corpi raggiungono vette virtuose, ai limiti delle loro potenzialità. Dal momento che qui il focus è sulla sopravvivenza, quella qualità di movimento si presta ad essere collante e disgregante del gruppo nello stesso momento, materiale esplosivo e mastice, in un quadro, fatto di percussioni e tagli di luce calda laterali, che non disdegna i toni epici e vi arriva con potenza e pathos.

Interplay dà il via alle sue serate con il botto, la sala in standing ovation e il quadro di una danza, frutto di un proficuo melting pot di danza moderna americana, tradizionale araba e contemporanea europea, in stretto dialogo con un vissuto profondamente segnato dalle sofferenze inferte e subite.

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