GIULIA MURONI| «Tutta l’opera di Roussel ruota intorno ad una esperienza singolare: il legame del linguaggio con questo spazio inesistente che, al di sotto della superficie delle cose, separa l’interno della loro faccia visibile e la periferia del loro nocciolo invisibile. E là, fra ciò che c’è di nascosto nel manifesto e di luminoso nell’inaccessibile, che si crea il compito del suo linguaggio».
Queste le suggestioni di Michel Foucault (1963) a proposito di Raymond Roussel, il cui Impressions d’Afrique ha costituito il riferimento di una delle più recenti performance di MK, vista a novembre alla Galleria Comunale di Cagliari, nel cartellone di Autunno Danza. A partire dall’Africa come orizzonte immaginifico, la disamina dei rapporti coloniali in un contesto esotico (“una donna destinata al sacrificio, una pattuglia di marines in avanscoperta, dei guerrieri esperti di tecniche di ipnosi”) rinvia a una continua astrazione il compito del proprio linguaggio corporeo.
In quello stesso iato tra il nascosto nel manifesto e il luminoso nell’inaccessibile, che in Roussel si esercita in un linguaggio paradossale e metalinguistico, si situa anche l’ultima creazione Robinson, vista alle Fonderie Limone a Moncalieri, all’interno della rassegna Interplay. Qui il rimando è a Michel Tournier che, con il suo Venerdì o il limbo del pacifico (1967), ha sconquassato la vicenda di Robinson Crusoe per dare voce al bistrattato Venerdì e rimodellare, in un’ottica novecentesca densa di nozioni dell’antropologia strutturalista, i concetti di selvaggio e di civiltà. Leone d’argento per la danza alla Biennale Danza di Venezia 2014, Robinson vede deflagrare il protagonista di Defoe, morto di solipsismo, per assumere un nuovo personaggio errabondo e sperduto, costretto a ridimensionarsi nell’inaspettato incontro con l’alterità. Il processo di astrazione coreografica spinge all’analogia per giungere a definire la danza ciò che è soltanto nell’incontro e che si mantiene in vita grazie ad esso.
Sul candore del fondale e del tappeto si definiscono le figure dei danzatori, ma la prima apparizione spetta a Philippe Barbut in mutande, dipinto di nero e giallo, che con un lungo bastone flessibile rivela l’elemento scenografico di rilievo: una sorta di vela fluttuante e iridescente, gonfia e metallica, su cui si rifrangono le luci. A partire da questa apparizione perturbante si susseguono le presenze in scena dei danzatori, coperti da pochi indumenti dal colore neutro. I loro movimenti vanno ad amalgamarsi, fino a esplicitare la dinamica ripetitiva che compone le diverse combinazioni nello spazio. Di tanto in tanto una sospensione: è l’ingresso di quella stessa figura anomala che, toccando con l’asta qualcuno dei performers, cambia l’atmosfera. Poi la danza riprende il suo corso, in questo loop di incontri e addii, foriero di indefinite possibilità. L’idea di fondo è condotta con coerenza e metodo nell’arco di tutto lo spettacolo, senza ammiccamenti ma anzi con un rigore formale notevole e uno sguardo registico determinato e presente. L’estetica, resa forte da un tappeto sonoro costante e un disegno luci ricchissimo, a tratti risulta ostica ma rappresenta una tappa razionale del percorso iconoclasta e destrutturante degli MK.
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