VINCENZO SARDELLI | Quante suggestioni in“…E scrisse O come Orlando”, regia di Jolanda Cappi, ritorno in gran spolvero della compagnia milanese Teatro del Buratto, impegnata da quarant’anni nel teatro di figura e animazione su nero.
Si chiude in bellezza l’IF, Festival internazionale di teatro di Immagine e Figura, vetrina che da sette anni porta al Verdi di Milano le migliori produzioni di teatro visuale e di figura: da Familie Flöz ad Ananda Puijk.
Un teatro artigianale, che raramente fa ricorso alla tecnologia. Eppure capace, poiché supera la parola, di aprirsi a un pubblico ampio. Codici espressivi tradizionali, per niente lisi, anzi, proiettati nel futuro: il senso della contemporaneità, nelle arti e nella comunicazione, sembra affidarsi alle immagini, più che alle parole.
Quest’Orlando, tratto dal libriccino che Virginia Woolf scrisse nel 1928, esprime il valore metatemporale dei classici. È un mito moderno. È una metafora brillante e nostalgica del desiderio di fama e d’amore, delle illusioni, dell’immortalità e della caducità insite nella vita umana. Ambientato tra età elisabettiana e Novecento, il libro attraversa con ironia oltre tre secoli di storia.
Giocato sull’intercambiabilità e l’interazione dei sessi del protagonista, incarnazione dell’androginia cara alla Woolf, Orlando è simbolo della libertà interiore e della completezza creativa della scrittrice londinese. Qui è un ragazzo che ama la poesia. Grazie alla propria versatilità conquista la regina. Da giovane incontra la principessa russa Sasha (evocata da una sinuosa pelliccia bianca) e se ne innamora. Rifiutato, si rifugia a Costantinopoli. Dopo un lungo sonno ,si risveglia come donna, amante della vita e della letteratura.
Lo spettacolo, tra scherzo e fantasia, metamorfosi e magia, attraversa i molteplici tratti di un personaggio ambiguo. Vediamo materializzarsi nel buio, animato da un raggio trasversale, un cancello trasparente. Di là da quello compare, maestosa, irraggiungibile, una bambola-regina, cui un ragazzo saltellante offre una coppa d’acqua di rose. Dal nulla si materializzano specchi, in movimento rotondo come un valzer. Assecondano una musica da epopea rinascimentale, di liuti e clavicembali, che lasceranno via via il campo a fortepiano, pianoforte, arpa, fino all’oboe suonato da Mario Arcari.
La colonna sonora di Roberto Andreoni è anch’essa proteiforme. Seguendo il viaggio ineffabile di Orlando, si piega ad antichi stilemi inglesi o turchi, russi o francesi. Partitura drammaturgica essenziale del teatro di figura, questa musica-carillon varca i limiti spazio-temporali. Duetta con la drammaturgia ipnotica di Rocco D’Onghia, affidata a voci fuori campo, accompagnamento leggero, mai pedante.
La parola è centellinata: pochi momenti di riflessione e di narrazione, fantastici, a volte scherzosi. Come quando quattro bastoni misogini bacchettano, con insolenza, Orlando-donna.
Il protagonista sperimenta, si perde e si ritrova, in un percorso ciclico di morte e di rinascita. Orlando è animato dalle illusioni della bellezza e della poesia. Ingurgita ogni effluvio vitale. S’innalza, come i libri aperti che svolazzano intorno a lui, o le valigie che galleggiano nel buio come forme di Chagall. La scenografia di Marco Muzzolon è un castello delle meraviglie. Tagli di luce mutevoli, lampeggianti, evocano, ad esempio, il rigido inverno di Londra.
Tutto si tiene. Questo spettacolo è un calibrato gioco a incastri. Ci consegna evocazioni pulite del genio di Virginia Woolf. È armonia di luci (Marco Zennaro), musica, voci (Silvia Orlandi) e animazione (Giusi Colucci).
Le maschere di Andrea Cavarra svelano le varie identità di Orlando, sviscerando il tema del molteplice insito nell’unico. Complesso e intrigante il lavoro dei quattro animatori (Elisa Canfora, Marialuisa Casatta, Nadia Milani, Francesca Zoccarato) capaci al buio di decriptare materiali eterogenei, e trasformarli in forme e relazioni.