MalorniMATTEO BRIGHENTI | I vuoti d’autorevolezza generano vite storte. Non ci sono padri né madri riconosciuti, non ci sono leggi condivise, non c’è neppure Dio nei quattro spettacoli finalisti a In-Box 2014. Ci sono i figli: a loro il compito di costruirsi una “famiglia” di valori in cui credere e vivere.
Per la prima volta dal vivo, al termine della due giorni al Teatro Cantiere Florida e al Teatro Popolare d’Arte/Teatro delle Arti, è così risultato vincente l’ “homo faber” al tempo della crisi, L’uomo nel diluvio “fortunae suae” di Simone Amendola, regista, sceneggiatore e autore teatrale, e di Valerio Malorni, attore, autore e regista. A loro i 37 giurati hanno assegnato 14 delle 39 repliche (finali escluse) messe in palio dai partner di In-Box, la rete di sostegno per la circuitazione del nuovo teatro ideata da Straligut Teatro. Dietro, i fratelli coltelli di Genesiquattrouno di Gaetano Bruno e Francesco Villano (10 repliche); poi le sorelle serpenti di Cantare all’Amore de La Ballata dei Lenna (8 repliche), compagnia formata nel 2011 da Nicola Di Chio, Paola Dimitri e Miriam Fieno; per ultimi, i coniugi trasformisti di Orfeo ed Euridice di Eco di fondo (7 repliche), gruppo formato nel 2007 da Giacomo Ferraù e Giulia Viana, guidati però dal non certo emergente César Brie, che ha scritto e diretto lo spettacolo.
Se tale è il risultato della selezione di 319 candidature, possiamo dire che In-Box ha quasi completamente mancato la sua stessa ragion d’essere: dare spazio alla “qualità artistica”. “Quasi” perché nella Rete è rimasto impigliato, a questo punto più per caso che per progetto, un piccolo capolavoro, che non poteva, onestamente, non vincere.

L’uomo nel diluvio

Tra il restare e l’emigrare c’è di mezzo il mare dell’umanità in tempesta. Se rimani puoi dire di non aver voluto combattere, se parti, invece, tutti capiscono che sei in guerra. E partire è già un po’ morire.
Forse per questo Valerio Malorni inizia stringendo a sé un orologio fermo: è l’istante in cui ha deciso di lasciare l’Italia per andare a sopravvivere a Berlino. Ha un completo scuro stazzonato, la pioggia è registrata e Bob Dylan canta “I want you”. Noè ha costruito l’arca per volere di Dio, Valerio, perché Malorni recita se stesso, si è fabbricato la sua salvezza da solo, in una vasca che in scena è una sagoma di cartone, come le valigie degli emigranti inizio ‘900. Però, per non sentirsi straniero in terra straniera, sia come personaggio che come attore, ha bisogno di te, di noi, del pubblico.
Un “one emigrant show” duro, ironico, schietto che ci restituisce ciò che di più importante la crisi ci ha portato via: l’umanità.

Genesiquattrouno

Un uomo è accasciato dentro un cerchio di pietre. Sopra la sua testa pende un albero spoglio a chioma in giù. Con un balzo entra nel cerchio un altro uomo. Si toccano, si annusano come animali, a gattoni. I rami dell’albero sembrano indicare tutte le possibili direzioni creative di un’indagine sul linguaggio fisico, della ricerca di una cifra poetica del movimento.
Questa costruzione d’intenti crolla quando i due escono dal cerchio e, in piedi, cominciano a parlare. Sono fratelli e quanto appena visto è ciò che si sono fatti l’un l’altro. Girano così in tondo al rapporto conflittuale tra loro, con il padre, con la società e lo stesso fa lo spettacolo, ma il cerchio non è una direzione, è un avvitamento.
Il faticoso “giallo” circolare per scoprire la macchia che li unisce porta a una fine che ha il suo inizio, come dice il titolo, nella Genesi, capitolo 4, versetto 1: Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: “Ho acquistato un uomo dal Signore”. Fisico e parole, dunque, per l’eterno ritorno della fratellanza del male.

Cantare all’Amore

Due sorelle, stavolta, divise da un vestito da sposa usato. Il matrimonio s’ha da fare per uscire dalla misera, ma quando il sarto varca la soglia di casa, un rettangolo di lucine da varietà, passa più tempo a pensare all’amore per la “brutta” che al matrimonio della “bella”. Ha rinunciato alla vita e adesso trova una ragazza che non sa di averne una. Sono legati da nervosismo, imbarazzo, inadeguatezza. A tal punto, però, da diventare insopportabili l’uno all’altra. Non va meglio alla sposa, nonostante conquisti l’agio sufficiente a nascondere la propria infelicità.
Gli attori sembrano dissociati da ciò che dicono, come se i pensieri fossero doppiati da una lingua che non è la loro. Fanno allora faccette e smorfie per suscitare il riso che arriva con il contagocce, situazioni che vorrebbero essere forti o poetiche risultano, invece, solo piccole e frammentarie. In tutto questo, tanto, troppo, manca il colore più importante per uno spettacolo sull’amore: la magia del non detto.

Orfeo ed Euridice

Non è un attore, è qui per caso. Si presenta come Caronte, ha gli occhiali da sole e un forte accento meridionale. Ha portato Orfeo all’altromondo per salvare la sua Euridice: lui ha cantato una canzone di Battiato, ma poi, sulla strada del ritorno alla vita, ha fatto ciò che non doveva: voltarsi a guardarla. Lei, così, è morta per sempre.
Questo siparietto introduce al racconto di un Ade molto terreno: lo stato vegetativo di una moglie a seguito di un incidente stradale. Il mito, oggi, è come accompagnare i propri cari a una “dolce morte”, quando la vita non è più degna di essere vissuta. L’incontro, l’amore, e poi lo schianto in macchina, l’ospedale e il vivere continuando a non morire sono raccontati con ricorrenti cambi di personaggi che rendono una storia verosimile irreale, meccanica, finta. Come la scenetta iniziale.
Un “caso Englaro”, dunque, sulla partitura di miseri trasformismi, condita con la saccenza di chi sa cos’è il dolore o la malattia. E non lascia a nessuno la libertà di farsi la propria opinione.

2 COMMENTS

  1. Caro Francesco, Caro Fabrizio,

    la vostra presa di posizione rispetto al mio articolo sulle finali di In-Box 2014 arriva per me come un sollievo. Per me, ma soprattutto per i miei 5 lettori.
    Il tempo che avete speso nel coniugare risentimento e moderazione, fermezza e accondiscendenza, dice che queste parole che io cerco con caparbietà quando la notte si fa più scura – il mio “buio in sala” lontano dagli occhi indiscreti e assordanti del giorno – sono in grado di scuotere, prendono gli occhi e li spalancano, si attaccano ai pensieri e non so ne vanno finché non diventano azione di risposta. Hanno perciò senso, ragione, motivo di esistere.
    Rispondendomi mi avete fatto il regalo più bello: mi avete confermato che non avrei potuto scrivere altro che ciò che avete letto.

    1) In due sere, su 319 candidature, ho visto solo 1 spettacolo con “qualità artistica e capacità di parlare a più pubblici” e “un ciclo di vita, vitalità e freschezza che ne giustificano la circuitazione” (come scrivete nei vostri materiali). 1 su 4. 1 su 4, insisto, è “caso”. Il vostro obiettivo, invece, è 4 su 4. Quella è “progettualità”. Tutta un’altra storia.
    Infatti, le repliche in palio non vanno soltanto al vincitore. Se fosse così, basterebbe quell’1 su 4. Ma non lo è. Chi accede alla finale ha, in parte, già vinto, perché si assicurerà qualcuna delle piazze dei soggetti da cui è stato votato nelle fasi eliminatorie.
    Capite bene, allora, che il mio ragionamento è più ampio della bontà o meno della selezione del vincitore, su cui sono il primo a essere d’accordo.

    2) L’albo è d’oro per definizione. A parte questo, credo che la risposta ve la diate da soli: “abbiamo deciso, per rendere più efficace il giudizio della giuria e più accurate le sue valutazioni, di creare una fase finale di selezione dal vivo”. Vuol dire che prima il giudizio non era tanto efficace e le valutazioni non così accurate. Questo aggiunge una nota di chiaroscuro se non ai vincitori, certamente al processo con cui sono stati selezionati.

    3) Il paragone con il MiBACT mi sembra un po’ buttato là. Si può discutere un ente statale perché usa soldi pubblici (di tutti), mentre bisogna azzittire le critiche ai soggetti privati perché rischiano del loro?
    E ancora: processo? Quale processo? Bisogna finirla con questo vittimismo di stampo televisivo – quanto male ci ha fatto la Tv, così tanto che neanche ce ne accorgiamo – per cui una critica è subito un’accusa, una discussione è subito un processo. Questo non è un tribunale né uno studio televisivo a cui strappare un applauso facile. Qui si resta sul punto, a questione si risponde con un’altra questione. Da persone adulte.

    “E’ evidente che la precarietà e le difficoltà economiche di certo non agevolano il nostro lavoro e talvolta possono avere degli effetti negativi sulla sua qualità.” Bene. Questa è una notizia importante. Cosa intendete per “talvolta”? Questa volta? L’altra volta? E come pensate di porvi rimedio? Chiederete finanziamenti pubblici?

    4) Le polemiche lasciamole dove stanno meglio, nel dimenticatoio (anche se è stato spiacevole vedere pubblicati i risultati, pur errati, delle finali sul sito di Kilowatt Festival, prima delle finali stesse).
    Credo, però, abbiate ben presente il mestiere che vi siete scelti, dove ogni notte non è mai uguale alle altre, dove si costruisce qualcosa che non c’è e ogni volta è una nuova volta. Il passato conta per ciò che riesce a rappresentare oggi, in questo momento. Ciò che ho visto di In-Box 2014 è nel mio articolo. Né più né meno. Se non l’avessi raccontato, se non fossi rimasto aderente al “dettato dello sguardo”, allora, sarei stato non obiettivo e ingeneroso. Verso di voi, la vostra Storia e, soprattutto, verso i miei 5 lettori.

    Matteo Brighenti

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