RENZO FRANCABANDERA | La cifra di Amleto? Quella per antonomasia? Beh diremmo senz’altro il dubbio. Tanto incatenato il personaggio al suo dubitare, da aver regalato al dubbio il più comune degli aggettivi di giustapposizione: amletico.
E cosa fa un uomo quando non riesce a pensare al futuro senza angoscia, senza quel pensiero di incertezza destabilizzante? Cerca la certezza, la predizione, il vaticinio.
Ecco dunque che un’indagine su Amleto non può prescindere dal dubbio, ma anche dal rimedio all’angoscia, legittimando anche, però, quello spazio di fantasia, di immaginazione, di incertezza positiva che questo porta con sé.
Martina Marti, creativa di origine svizzera e finlandese di adozione, è arrivata così a raccontare e ricordare l’Amleto in una dimensione privata, con una performance, recentemente ospitata dal Festival Il Giardino delle Esperidi in una coproduzione fra ScarlattineTeatro – Campsirago Residenza, Gnab Collective in cui Amleto è un dialogo con un/una cartomante.
Giulietta Debernardi e Marco Mazza, in una sessione di lavoro invernale, hanno lavorato con la Marti a dare immagine, figura, forma fotografica (belli molti degli scatti di Erno Raitanen) al dubbio e alla tragedia shakespeariana. Ne è venuto fuori un mazzo di carte, dove invece che l’impiccato, la torre e la papessa, ci sono il dubbio, la nave, l’amico. Insomma un Amleto da tavolo, con lo spettatore, uno per volta, che si siede con il performer che fa partire una clessidra. In realtà due mazzi diversi per ciascun performer, ciascun mazzo che capta la sensibilità dell’attore che ne è protagonista.
E in realtà a quel punto Amleto sparisce, per farsi dialogo fra lo spettatore e il performer, che inizia a leggere le carte. Ma il cuore della lettura in realtà sono i dubbi. Chi non ha avuto dubbi. Chi non ne ha. Chi non ne avrà. E quindi lo spettatore viene ribaltato, che sia partecipe ed espansivo o magari chiuso e schivo, in una dimensione di incertezza in cui la determinante, come per Amleto, non è quello che decidono gli altri ma quello che sei in grado o no di decidere tu di te stesso e della tua vita.Vivrò a lungo, sarò felice, sarò amato, sarò ricco? Chissà. E certo non è un performer a poterlo dire. Ma in realtà se poi ci si pensa, sono le domande che si fanno magari in molti, e a cui non è dato avere risposta. D’altronde, come ne il Truman Show, sapere la risposta vuol dire far perder fascino al gioco della vita. La vita è bella perché è dubbio. Amleto è immortale per questo. Amleto è la vita. E ogni volta che appare, anche solo in una girata di carte attorno al tavolo, dove le parole di Shakespeare affiorano per 2 minuti scarsi, riesce sempre in qualche modo ad esercitare una forma animalesca di fascinazione. E’ questo che la Marti ha avuto l’intuizione di capire, trasformando lo spettatore in un Amleto alle prese con la scrittura della propria drammaturgia, e con un Orazio personale a fargli da guida spirituale fra segni e simboli che in realtà sono familiari prima di tutto al proprio intuito.
E lo spettatore con un gioco intelligente, è costretto a concentrarsi su quelle immagini, su quei simboli, sulla donna in bilico o sull’impronta della scarpa nella neve, sull’ombrello svolazzante o sull’uomo mimetizzato nella boscaglia. E la provvidenza del passero, quelle parole di Shakespeare che raccontano la caducità struggente dell’universo vivente, di colpo si fanno in qualche modo chiari. Finisca come finisca.