LAURA NOVELLI | C’è come una richiesta implicita di lasciarsi andare a un tempo sospeso fatto di ritmo e parole. Un bisogno di trasmigrare altrove, tra suoni di un’altra terra, di un’altra epoca, in una miscela proteiforme di note e canti e cunti che muovono dalla Sicilia per riconnetterci a un’età semplice e forse perduta. C’è un invito a godere di un dialetto (a volte oscuro eppure avvolgente) che si fa musica, di una ritualità popolare che è di tuti e per tutti, di un passato storico che è nostro, ed è patrio. E’ facile smarrirsi ogni tanto mentre si assiste a I quattro canti di Palermo di e con Mimmo Cuticchio e Ambrogio Sparagna ma è altrettanto facile ritrovarsi, intercettare una propria traiettoria, riannodare le fila di un impasto originalissimo di forme espressive diverse che, partendo da uno dei volumi della poderosa Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane di Giuseppe Pitrè, costruisce una tessitura di musica, canti, narrazione davvero unica. Un esperimento, dunque. Una prova del fuoco. Coraggiosa. Direi eroica. Soprattutto nella misura in cui risulta eroico, in un’epoca come la nostra, parlare per immagini usando appunto solo la forza del dire, una spada di legno, un pupo dalle fattezze antiche e ritmi musicali dal sapore folkloristico.
La scelta poi di far debuttare uno spettacolo così inconsueto in un palcoscenico storico d’eccezione come Villa Adriana a Tivoli (il lavoro è stato programmato infatti nell’ambito dell’edizione 2014 del Festival Internazionale che Musica per Roma, in sinergia con la Regione Lazio, organizza in questa suggestiva area archeologica ormai da sei anni) non fa che alimentare la voglia di immaginazione e di passato.
Cuticchio entra in scena da solo, senza nulla in mano: è solo voce. Il viaggio inizia così, quasi in sordina, con un cunto sul mercato di Palermo, su un addio, sulla luna, e poi poco a poco lo spazio della rappresentazione si riempie di musicisti (Sparagna e gli strumentisti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica, davvero magistrali nelle loro esibizioni d’insieme e solistiche) e della bella voce della cantante siciliana Eleonora Bordonaro. A metà spettacolo poi un’irruzione sorprendente: oltre settanta persone si alzano dalla platea e vanno a formare il Coro Popolare diretto da Anna Rita Colaianni. Sembrano un rivolo composto di energia e vigore. Canto e cunto si intrecciano, si rincorrono, si rassomigliano. Ma è senz’altro Cuticchio l’anima teatrale di una drammaturgia che (sebbene nel complesso un po’ troppo lunga) indugia volentieri sul racconto, sulla spiegazione, sulla rievocazione architettonica o storica. Ovviamente al centro del dire c’è Palermo. O meglio, Piazza Vigliena: un tempo cuore pulsante della vita cittadina e punto di raccordo dei “quattro canti” (sarebbe a dire, i quattro mandamenti) della città che, rievocata anche come “Teatro del Sole”, sembra funzionare qui come una sorta di “quinta” urbana della narrazione.
Ecco dunque la storia dell’avvelenatrice di mariti che morì impiccata, quella di Giufà magistrato, quella di Garibaldi che libera Palermo, quella – compassata e generosa di immagini – del miracolo di Santa Rosalia durante la peste del 1624. Normanni, arabi, greci, Borboni, garibaldini, soldati, santi, popolani, picciotti, marinai, mercanti riempiono le battute del cuntista facendo evaporare dalle pagine di Pitrè – scrittore, antropologo e medico che, vissuto tra il 1841 e il 1916, raccolse e pubblicò un importante corpus di storie, aneddoti, proverbi, tradizioni, leggende, feste, fiabe, indovinelli, scongiuri siciliani cui si ispirarono anche Capuana e Verga, i padri del nostro Verismo – il ritmo salmodiante e incalzante della vita siciliana vera. Quella che non consiste senza fantasia e misticismo. Al resto ci pensano le note, le voci e la canzoni. E uscendo dall’estesa tenuta dell’imperatore Adriano, ormai buia e assai poco visibile, risulta difficile non pensare a come gli innesti culturali – ambito in cui proprio Adriano, grande amante dell’arte e della filosofia greche, ci ha lasciato una sublime testimonianza – siano spesso atti di un coraggio artistico necessario. Tanto più quando consentono di dare spessore contemporaneo al passato.
Bella rappresentazione infatti. Bella recensione pure.