GIULIA MURONI | Le vite di tutti. Sottotitolo suggestivo per l’ultima recente edizione del festival delle Colline Torinesi, ha mantenuto le promesse. Lo sguardo sulle esistenze non si ferma su un soggetto privilegiato ma accoglie una gamma eterogenea e variegata di anime e soggettività.
L’omosessualità irrompe come tema scottante e straziante, in questa prospettiva che intende dare voce allo stesso tempo alle individualità e alle rispettive peculiarità per restituire uno sguardo lungo sulla collettività nel reale. La trilogia proposta dall’edizione 2014 delle Colline Torinesi comprende “Operetta burlesca” di Sud Costa Occidentale, “Thérèse et Isabelle” del Teatro di Dioniso e “Still Life” di Ricci/Forte, visti rispettivamente al teatro Astra, al Gobetti e al Carignano, in Torino.
Emma Dante, che capeggia Sud Costa Occidentale, fa dell’omosessualità di Pietro, benzinaio, e della sua problematica accettazione nella provincia campana, il nodo cruciale di “Operetta burlesca”. Il protagonista vive il peso di una doppia vita, quella lavorativa e familiare in provincia e il finesettimana fatto di paillettes a Napoli, dove può finalmente dare sfogo alle sue più profonde inclinazioni e sentirsi libero di vivere delle relazioni amorose. Tematiche e motivi cari a Emma Dante, la dimensione del dramma domestico, il labile confine tra la vita e la morte, la meridionalità ingombrante, il tocco poetico della quotidianità sono presenti, sebbene in forma embrionale in una realizzazione scenica che sembra ancora arrancare nella sua completezza, manchevole di quella pienezza espressiva, anch’essa cifra della regista palermitana. Emma Dante, grande regista e acuta osservatrice, non assurge qui alle vette poetiche cui ha abituato, mantenendosi in un mélange colorato, in cui si intravede tra le righe il suo tocco, senza però riuscire a far decollare il pezzo sulla scia di una ispirazione decisa.
Valter Malosti, regista del Teatro di Dioniso, mette in scena “Isabel et Thérèse”, duo femminile, a partire dal testo di Violette Leduc, che racconta in prima persona la liason amoroso-sessuale di due adolescenti, costrette a viversi con il fiato sospeso durante le silenziose ore notturne in collegio, con l’orecchio sempre teso ad avvertire i movimenti della custode. Interpretato da Isabella Ragonese e Roberta Lanave, la narrazione sembra godere del compiacimento del pruriginoso, avvinghiarsi con intenzione in un quadro erotico stuzzicante che scende nel dettaglio dei loro incontri saffici, spinti da un amore ancora acerbo. L’abbandono della tematica in termini civili e politici lascia spazio a una lettura intimista e lasciva, suadente e libidinosa, che nella voce di Ragonese e nel corpo (in particolare la folta chioma) di Lanave trova la sua messa in atto. Una scena essenziale, immersa nel buio, concede cerchi di luce alle due protagoniste, una Ragonese immobile con il libro-diario in mano, e Lanave, perlopiù silenziosa, che affida a qualche movimento e alla sua bella presenza, il compito di sostituire le parole. Nelle file dietro la sottoscritta fioccano commenti triviali piuttosto espliciti, di coloro ai quali non sfugge il portato pruriginoso del lavoro su cui Malosti sembra in effetti calcare un po’ troppo la mano. La scena è affidata, diversamente dal riuscitissimo Quartett, a due interpreti ancora non nel pieno della maturità recitativa, che non risultano del tutto in grado di padroneggiare in toto un testo delicato, dalle mutevoli tinte poetiche, creando una composizione fragile, non efficace, benché contenga elementi di pregio su cui si potrebbe fare leva per dare più ampio respiro e una consistenza più rilevante.
La trilogia sull’omosessualità si chiude con “Still Life” di Ricci/Forte, al Teatro Carignano. Il duo ritorna sul tema dell’omofobia, non per niente lo spettacolo è nato in occasione del festival Garofano Verde, e prende le mosse dall’episodio dell’adolescente romano vittima dl bullismo omofobo, impiccatosi con un foulard rosa,. La vis polemica anima tutto lo spettacolo, in un alternarsi di sentimenti sempre caratterizzati da un’energia dirompente, urlata. Ad esempio la bella scena di Anna Gualdo e Liliana Laera, a cavalcioni sul proscenio, le quali intervallano un dialogo di voci solitarie tra il serio e il faceto riguardo l’essere madri in modo non conformista, tale da far crescere figli non discriminati né discriminanti. Curioso che a proposito di omofobia si dia così con forza l’accento sulla responsabilità materna che pure esiste e ha un ruolo importante, ma che non può certo esaurire le cause dell’omofobia, in famiglia come nella società. Ad ogni modo la scena risulta davvero efficace, di alto livello recitativo. D’impatto la nudità di Giuseppe Sartori, preso a calci dal resto del gruppo e segnato dalle impronte delle loro sferzate. I cinque performers denunciano esplicitamente l’omofobia con l’uso della parola, dei segni del corpo e di un scenografia ricca. Non ci sono mediazioni, né eufemismi: è una guerra e siamo tutti chiamati a smuoverci dall’agio della comodità. I performers stuzzicano il pubblico con la rottura di cuscini enormi e la conseguente invasione di piume, sputando e schizzando acqua sulla platea, in una dinamica di gioco infantile che sfocia nel cameratismo. Scendono a baciare sulla bocca la platea, tra cui anche la sottoscritta. Il vertice emotivo risiede nelle immagini che il duo Ricci/Forte ha accortamente costruito e che costellano lo spettacolo. Scenari di violenza, dolore, amore e sofferenza in quell’inscindibile connubio di amore e morte che in tanti hanno raccontato. È un estetica molto facile, immediata, che non cala in profondità e saccheggia l’immaginario mainstream della moda e della televisione. Questa certa visione spettacolare e un po’ di superficie ha la sua forza nel tradursi in un’ immediatezza e efficacia comunicativa capace di arrivare al pubblico, forse perché sui binari di un ordine estetico già noto.