RENZO FRANCABANDERA | E’ il terzo tempo il capolavoro. Quella sorta di barbarico yawp, quello della storia d’America fra Otto e Novecento, storia di schiavi e colonizzazioni, di libertà e tribù. Nessun colosseo, nessuna storia millenaria, un’eco lontana d’Europa, ma sullo sfondo, in una brutalità giovane, adolescente, testosteronica e ignorante. Dove comanda una sorta di legge del taglione.
Eppure è la stessa terra che combatte poi con se stessa, che afferma altri valori, che sbandiera un’identità fatta di indiani ed emigrati d’Africa. Insomma di sconfitti. Che piccola grande storia quindi quella di questa casa colonica nella prateria, fra amori, rapporti di forza, nostalgie, case di bambola e Alici nel paese delle meraviglie, mentre lontano i cannoni nemmeno si sentono. E la guerra è da un’altra parte.
Il Via col vento di Antonio Latella, che ha chiuso la trionfale tournee’ 2013-14 coronata di premi e grandi successi con la data al Festival delle Colline Torinesi, e’ forse uno dei grandi, forse pochi veramente imperdibili, spettacoli degli ultimi anni.
Un polittico nelle tinte dell’affresco ottocentesco ma con la capacita’ analitica del nostro tempo, l’epopea coloniale con l’occhio della societa’ postindustriale. Ma senza tecnologia, solo, drammaticamente, con il corpo degli attori, anzi delle straordinarie attrici Caterina Carpio, Candida Nieri, Valentina Vacca, visto che questo e’ un lavoro al femminile, che anche dove racconta il punto di vista maschile, lo fa con una sensibilita’ particolarissima e davvero bifronte, capace, come l’ultimo e più performativo atto, in cui la casa, i corpi, la Storia, si svelano e si ri-velano, prendono vita e si ri-mummificano nel tableaux vivent di una casa di bambole fuori dal tempo, fuori dalla Storia, che invece in altri atti della pentalogia, entra, irrompe, violenta i personaggi.
Raccontare nel dettaglio i cinque atti, la maratona e’ in realtà un compito che forse non ha nemmeno un significato, una portata adeguata a descrivere l’insieme di segni che Francamente me ne infischio regala allo spettatore. E fondamentalmente, anche nel confronto con le altre e più recenti creazioni di Antonio Latella, conferma la sua assoluta inclinazione e forse fondamentale predilezione per un tempo analitico lungo e possibilmente in più elementi. E’ qui infatti che Latella riesce a dipanare meglio la sua poetica, ed e’ una cosa che mancava dal 2008 con il progetto Hamlet, al quale il Festival delle Colline diede all’epoca un importante supporto produttivo.
E qui viene fuori il tema relativamente al conflitto poetica vs produzione che il nostro tempo sta vivendo. E’ vero, anche l’eta’ contemporanea ha avuto i suoi Tolstoj e Dostoevskij che hanno avuto lo spazio letterario delle 800 pagine per raccontare le nostre Borodino, ma sono sempre meno le possibilità e alcuni linguaggi hanno abdicato quasi del tutto a queste opzioni, a queste ampiezze. Il nostro teatro sempre meno offre tali possibilità produttive, pur conoscendo interpreti della poetica lunghezza di primo rilievo.
Il tema che Francamente me ne infischio, come anche L’origine del mondo e altri grandi cicli di affreschi teatrali del nostro tempo fanno emergere, e’ quella di una capacita’ del teatro e anche di una attrattivita’ per il pubblico, per l’approccio di durate analitiche e poetiche ampie. Ma il teatro e’ pronto? Puo’ reggere queste durate dal punto di vista produttivo? Proprio nel tempo i cui i fondi diventano scarsi, la probabilità di andare a teatro e non assistere ad un più o meno triste monologo si va riducendo via via. Ecco quindi che assaggiamo queste occasioni come quando una volta ogni tanto si va al ristorante buono, con quell’incoscienza che hai di fregartene una volta tanto del conto che pagherai alla fine. Ma e’ una possibilità rara. Elitaria. Che gia’ solo per concretizzarsi per i pochi abbisogna oramai anche di rivoluzioni di pensiero e di sistema, di nuove cooperazioni e di ripensamenti di modalità di circuitazione importanti. Siamo pronti a bombardare i campanili per permettere alla qualità di esprimersi? O i ricatti incrociati, la logica degli scambi e dei personalismi che hanno inquinato il nostro sistema negli ultimi anni bloccheranno i nuovi Tolstoj teatrali? Vedremo. Intanto per una volta francamente ce ne siamo infischiati. E abbiamo goduto. Evviva.
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