VINCENZO SARDELLI | Un monologo capace di testimoniare l’amore per il teatro, arte che è strumento totale per conoscere la realtà e la vita, per sondare l’animo umano, rivelandone emozioni e sentimenti.
Non chiamatemi maestro è il tributo a Giorgio Strehler con cui Corrado d’Elia ha chiuso la stagione del Teatro Libero di Milano.
«Racconterei anche muto. Racconterei anche immobile,ad occhi chiusi, voltato di spalle, dietro una tenda, chiuso in un ripostiglio o in fondo al mare. In qualsiasi modo io racconterei, perché l’importante per me è raccontare … raccontare le storie di altri, ad altri … ad altri che ascoltano». Strehler esprimeva la propria urgenza di un contatto con il pubblico. Anche nel teatro, il cuore conta più delle parole.
Scalzo, camicia e jeans, D’Elia ricostruisce la poetica di Strehler staccandosi dall’impersonalità. Non mostra vita e arte: ne propone l’essenza. «Io so e non so perché lo faccio il teatro ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo facendo entrare nel teatro tutto me stesso, uomo politico e no, civile e no, ideologo, poeta, musicista, attore, pagliaccio, amante, critico. Me insomma, con quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita. Poco so, ma quel poco lo dico».
Poco so, ma quel poco lo dico. Deve aver pensato la stessa cosa di Strehler Corrado d’Elia quando ha messo mano agli scritti e all’opera del fondatore del Piccolo Teatro per evocare un uomo, un’anima, un’epoca.
Un format collaudato in altri monologhi, come Beethoven o Notti bianche. Uno sgabello. La propria presenza scenica. Le luci intime, dosate da Alessandro Tinelli.
Gli album di d’Elia sono racconti di passione. Sono percorsi poetici, eventi quasi privati. Lo spettatore percepisce aspetti frammentati della realtà: la memoria che ognuno ha della propria vita è parziale, tronca. Come quando si guarda un album fotografico, i ricordi affiorano in modo aleatorio, con salti temporali. Le sequenze riproducono l’intreccio irruente dei pensieri.
Nei suoi assolo d’Elia normalmente si trova sul palco vuoto, con un oggetto simbolo prescelto ribadito all’ennesima potenza: lampadine in Notti bianche; pannelli come spartiti in Beethoven. Qui lo sguardo si allarga. Non oggetti ma persone. La solitudine diventa spazio per un incontro che è condivisione. Ecco la scelta di far sedere un po’ di spettatori sul palco. In fondo il vero protagonista dello spettacolo è proprio il teatro. Il pubblico vive l’emozione di essere centrale, di sentir vibrare voce e respiro, di farsi lambire dalle luci. Di scrutare quello che percepisce della sala, il silenzio, il buio, gli umori.
È un clima raccolto. In scena c’è anche un microfono, un leggio, metafore di uno spazio ideale, infinito. Per raggiungere tutti. Per aggiungere quel tanto di enigmaticità.
Il sonoro non è intermezzo ma partitura narrativa. Musiche scelte come gli ingredienti per cucinare quando si aspetta un ospite. Una selezione curata che crea un tempo sospeso: opere di Mozart di cui Strehler ha curato la regia, Don Giovanni, Le nozze di Figaro, Così fan tutte; Ma mi, scritta per Ornella Vanoni. E poi, ancora, Concertino-Allegro dei Madredeus, Les choristes di Bruno Coulais, e il valzer finale Cries and whispers del coreano Cho Young-Wuk.
Corrado d’Elia evoca Strehler e il suo mondo di passioni e solitudini, sogni e tenacia. La Milano antica dei lampioni, della nebbia e del dialetto. Il sogno del Piccolo Teatro realizzato con Paolo Grassi, strana coppia di un triestino e un pugliese. Donne significative della sua vita privata e artistica, la madre, Valentina Cortese, Giulia Lazzarini, Andrea Jonasson. E frecciate, attualissime, su una politica che in Italia considera superflue le spese per la Cultura.
D’Elia, una sedia, un leggio, un microfono. Forse un maestro, e una storia da raccontare. Perché a teatro, quando le luci si spengono, per emozionare basta un bravo attore. E parole con un’anima.