RENZO FRANCABANDERA | Una piccola tournée nel 2014 quella di Sole, spettacolo ideato, diretto e interpretato per la prima volta 12 anni fa da Valentina Capone: una ispirazione originaria euripidea e un completamento nel 2008, alla morte di De Berardinis, cui l’attrice è stata vicina negli ultimi anni di attività, fra il 95 e il 2001, prima del tragico incidente ospedaliero cui il genio teatrale sopravvisse, ma senza più riprendere coscienza, restando in coma fino al 2008.
E’ proprio il tema della solitudine, dell’abbandono, quello che la Capone mette al centro della ricerca, un abbandono che ha a che fare, o almeno dovette averlo in origine senz’altro, con il distacco umano, artistico, emotivo dalla figura di riferimento.
E lo spettacolo effettivamente riprende molti codici che fecero del teatro di Leo un caposaldo per una generazione di giovani interpreti, come ad esempio la capacità di rileggere lo spazio del tragico entro i confini di una satira irridente e contemporanea. Come non ricordare le battute iniziali di quel “Totò, principe di Danimarca” che Leo interpretò con attori che ancora calcano i palcoscenici italiani, fra cui, nella seconda edizione, proprio la Capone, in cui il regista interprete irridente diceva:”Che ridete, che ridete? Amleto è una tragedia!”.
La Capone con quello stesso sguardo, immaginando figure dalla sessualità ambigua e dall’umanità zoomorfa, portò in scena un remake contemporaneo de Le Troiane, che poi si completerà a sei anni dalla sua ideazione, in occasione della morte di De Berardinis, ripreso quest’anno, a sei anni dalle ultime date, che valsero nel 2009 il premio ETI – Olimpici del teatro.
E’ Teatro Libero di Milano che riprende Sole, rimettendolo in produzione e facendolo circuitare, con un’ultima data per la stagione estiva 2014 proprio ad inizio agosto nel teatro milanese.
Che sapore ha il tutto a 12 anni dalla sua creazione?
Sicuramente, pure in una teatralità che appare per certi versi, come ovvio, datata, continuano a vivere, e con forza, alcuni momenti di particolare intensità, che paradossalmente sono quelli del distacco dalla lezione del maestro, quelli del percorso solitario, che culmina proprio nella visione più forte, con l’attrice che nella sua nudità e i capelli sciolti, approcci a, con le braccia chiuse al seno, il proscenio, per una dichiarazione d’amore all’eroe lontano, una dichiarazione contemporanea, metropolitana, fatta di nottate e sigarette, di luci della ribalta spente e di interni privati.
In un melange di tragico, indagine sul corpo e sulla maschera, di ricerca sulla doppiezza fra ciò che appare e ciò che è sostanza, muovendosi fra i pochissimi elementi in scena, se si fa eccezione per qualche richiamo alla figura del guerriero andato e alle maschere di Stefano Perocco Di Meduna (un rimando a certa iconografia del maestro), il tutto si svolge in un buio squarciato dalle belle e precise luci di Stefano Stacchini con le musiche di Alessandro Rinaldi.
Ci resta la sensazione di una compattezza estetica maggiore rispetto a ciò che arriva sul piano drammaturgico. Le epifanie grottesche che emergono dal buio, infatti, ad alcuni giorni di distanza, restano in memoria, confermano l’impatto visivo forte della ricerca, e che prevale, sotto certi aspetti, sulla parola e su quello che del recitato resta.
Ecco che forse, un destino utile e possibile di questa ricerca, nel suo rileggersi nel tempo e negli anni, potrebbe essere quello di ricavarne anche un più breve, ma più icastico, momento performativo sul tema dell’abbandono, di cui restino alcune parti essenziali del recitato e dell’agito, per una rilettura della memoria capace di farsi sintesi, lacerazione, ode di commiato, lo spazio di un taglio, di una cesura, forse senza più un sole ad illuminare.