MARIELLA DEMICHELE | Basta una passeggiata sulla costa occidentale Unknown-1di Taranto, osservare le imponenti strutture metalliche delle raffinerie che si ergono sul mare come scheletri di animali fantastici, corrosi dalla ruggine e dalla salsedine, per capire l’entità delle ferite inferte ad un luogo che per la sua felice posizione geografica, fin dall’antichità è stato sempre considerato speciale. Ancora agli inizi del Novecento – si fa fatica a crederlo – Norman Douglas parlava di Taranto come “di una perla preziosa incastonata su un anello”. Eppure, in questa città oggi tristemente nota per le vicende legate al processo sul disastro ambientale dell’Ilva, pulsano energie vive, fioriscono iniziative che fanno pensare ad una svolta, ad un desiderio profondo di riscatto e cambiamento attraverso l’arte e la cultura. Uno dei centri attorno ai quali si sta coagulando questo nuovo rinascimento tarantino si trova proprio nel quartiere Tamburi, quello più vicino agli stabilimenti dell’acciaieria, lì dove più forte è l’odore di ruggine e bruciato e il “polverino” colora di rosso le auto e le lenzuola stese ad asciugare. Sto parlando del TaTà – acronimo di Taranto auditorium Tamburi – il teatro “abitato” dal 2009 dalla compagnia teatrale Crest. Del lavoro svolto in questi anni sul territorio, dei progetti realizzati nell’ambito della rete di residenze teatrali pugliesi, del programma e delle finalità di “stArt up” – terzo festival teatrale, quest’anno dedicato al tema del contemporaneo e il cui programma definitivo è stato reso noto martedì 9 in conferenza stampa (www.teatrocrest.it/startup-teatro/) – ho parlato con il Direttore artistico del Crest, Gaetano Colella.
“La compagnia è un pezzo di storia di questa città: fondata nel 1977 da Clara Cottino, oggi presidente, e Gianni Sollazzo, è sempre stata fortemente legata al territorio. Al tempo di Mauro Maggioni, in un contesto socialmente e culturalmente difficile, nelle sede storica di via Duomosi esibivano Pippo Del Bono, Marco Baliani, Laura Curino: il Crest era il punto di riferimento imprescindibile per chi si interessava alla possibilità di contaminare i linguaggi della tradizione con quelli della sperimentazione e della ricerca. In quegli stessi anni sono nate le prime collaborazioni esterne con altre compagnie e operatori, coproduzioni, la compagnia ha cominciato a farsi conoscere e apprezzare all’esterno.
Poi è cominciato il lungo tempo dell’erranza: quasi dieci anni senza sede, con spettacoli nati nei posti più disparati. Il tempo in cui, come ricorda ancora Clara Cottino, arrivavano lusinghieri riconoscimenti del teatro nazionale ma la città ci ignorava. L’approdo al quartiere Tamburi, cinque anni fa, è stato per noi l’esito di un percorso fatto di lavoro umile e paziente sul territorio, che ha visto come interlocutori privilegiati i ragazzi, i giovani, gli insegnanti, con l’intento di creare un punto di riferimento professionale e culturale forte. La struttura assegnataci dal bando regionale era l’Auditorium della Facoltà di scienze della Comunicazione: 1000 metri quadrati fino a quel momento mai usati e che andavano ripensati, riorganizzati per affrontare l’esperienza della residenza teatrale.
Facendo un primo bilancio del lavoro svolto da noi e dalle altre Residenze in Puglia, si può senz’altro dire che 12 luoghi abbandonati a sé stessi sono rifioriti diventando spazi di aggregazione in cui l’offerta culturale è stata continua; vere e proprie imprese culturali che operano, tuttavia, senza le necessarie garanzie per svolgere un lavoro così complesso e delicato. Ed è qui il nodo di una contraddizione che si fa fatica a risolvere. Diversificando la tipologia dell’offerta riusciamo a raggiungere fasce di pubblico sempre più ampie, anche quelle tradizionalmente lontane dal teatro.
A livello istituzionale, invece, non sempre ci sentiamo riconosciuti per il lavoro che facciamo. Eppure, anche se lentamente, le cose stanno cambiando, perfino nella città “indolente e barocca” descritta dal maestro Peppino Francobandera. Il Festival “stArtup” è un esempio felice di collaborazione con il Comune di Taranto, la Regione, all’interno del progetto internazionale Italia-Grecia “I.C.E. Innovation, Culture and Creativity for a new economy”
Quest’anno c’interessava condividere con il nostro pubblico una riflessione su cosa significhi essere contemporaneo; una categoria che per noi non esprime una valenza temporale ma la capacità di una manifestazione artistica di entrare in comunicazione con il pubblico. È interessante vedere come spettacoli di vent’anni fa – come ad esempio Cafè Müller della Bausch o Titanic the end di Antonio Neiwiller – siano profondamente contemporanei, più di molti altri attualmente in scena che, invece, rompono il patto comunicativo con lo spettatore, provocando distacco, distanza. Secondo noi, invece, il teatro deve costruire ponti, creare occasioni d’incontro, non presentarsi come luogo elitario di esperienze accessibili a pochi. Il Festival accoglierà attività diverse – spettacoli, laboratori di visione, presentazione di libri, incontri e dibattiti – per raccontare il percorso creativo delle sei compagnie della rete di residenze teatrali pugliesi una.net e favorire lo scambio con autori, registi, attori della scena nazionale, coinvolgendo un pubblico che ha fame di stimoli e di spunti di riflessione”. Mentre ascolto Colella mi tornano in mente alcuni passaggi del recente dialogo tra Antonio Latella e Lluís Pasqual alla Biennale di Venezia dedicati al concetto di contemporaneo e penso che l’augurio migliore da rivolgere a “stArtup” sia quello di riuscire a creare nel pubblico quel corto circuito che nasce dalla consapevolezza della propria inattualità rispetto al tempo presente: come ha scritto Giorgio Agamben, infatti, può dirsi contemporaneo solo chi è disposto a ricevere “in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”.