GIULIA RANDONE | Che cosa penseresti se, nel bel mezzo di un concerto, un chitarrista abbandonasse il suo strumento per mettersi a danzare? E se i membri di una band improvvisamente interrompessero l’esecuzione di un brano per sedersi a tavola e cenare?
In Napoleon Pink Horse, della compagnia finlandese Esitystaiteen Seura (Live Art Society), succede anche questo. La performance ha inizio in maniera più tradizionale con l’ingresso dei musicisti, scalzi ed elegantemente vestiti in camicia bianca e gonna o pantaloni neri, e con un inchino di saluto al pubblico. Sul palco, allestito nel Piazzale Ex Pretura di Avigliana, salgono Pyry Nikkilä e Jani-Matti Salo: il primo inizia a suonare la chitarra, mentre il secondo accende alcune luci disseminate sulla scena. Mentre l’assolo prosegue, si uniscono a loro Miikka Ahlman (percussioni), Olli Kontulainen (chitarra) ed Elina Pirinen (tastiere), anima femminile della band. Da principio ogni musicista sembra deciso ad andare per conto proprio, ma gradualmente i suoni si intercettano, si approssimano e infine si intrecciano in un tessuto musicale dal quale scaturisce una canzone, interpretata dalla voce limpida di Pirinen. Alle armonie vocali terse faranno da contrappunto poesie di ambientazione ospedaliera, punteggiate di “parole ortopediche”, ventricoli e incontri ai raggi X; lyrics con riferimenti iconici più consuetamente romantici e arie melodiche sorrette dal flauto di Salo si vedranno rubare la scena da lunghe escursioni elettroniche in cui trionferanno tastiere e sintetizzatori (incluso un gameboy usato come modulo synth).
La suggestione anatomica, veicolata attraverso la lingua finlandese nelle canzoni (tradotte in italiano nel foglio di sala), si amplifica nella proiezione powerpoint della denominazione latina di alcune componenti del corpo umano. Alle spalle degli artisti scorrono le scritte os mandibulare, fossa subscapularis, processus coracoideus, musculus auricularis, che si scompongono per cedere il posto all’ombra di un volto umano e allo scheletro di un cavallo. Nello spazio oscurato e frazionato da tagli di luce rossa, i musicisti continuano a suonare o ad aggirarsi per il palco, illuminando i propri strumenti con lampade da testa. Mentre la musica va in crescendo e l’illuminazione diventa intermittente, i performer si fermano, immobili, sospesi, in ascolto, creature ibride e spettrali, bizzarri medici o speleologi.
Napoleon Pink Horse nasce in forma di concerto ma mira a sovvertire i perimetri rigidi del genere e a proporsi come un crocevia tra musica e poesia, canto e danza, luce e suono. Passando anche attraverso un piatto di insalata e una buona bottiglia di vino piemontese, consumati attorno a un tavolo, tra chiacchiere e risate. Un momento conviviale che alcuni spettatori vivono come una provocazione, ma che a ben vedere onora l’ambizione principale della performance: la sua vocazione all’intersezione, alle invasioni di campo. Gli aspetti più affascinanti del lavoro dei performer finlandesi sono, infatti, la ricerca di una coralità teatrale e l’urgenza di esplorare con il corpo molteplici possibilità espressive.
Il primo obiettivo si può dire raggiunto: quello a cui assistiamo è un lavoro di gruppo, di strofinamenti tra corde di chitarra, di tasti suonati a quattro mani, di contaminazioni tra canto e recitato. L’ensemble finlandese è affiatato e non teme le pause e i silenzi, tanto da scegliere di concludere il concerto silenziando progressivamente gli strumenti musicali e lasciando uno dei chitarristi a muoversi e dondolarsi da solo sul proscenio. Kontulainen, però, non è l’unico ad allontanarsi dal proprio strumento per fare danzare ossa e muscoli. In precedenza anche i compagni avevano esplorato diverse forme di movimento: il flautista e lighting designer Salo si era concentrato sulle mosse della breakdance, la vocalist e tastierista Pirinen (l’unica ad avere una formazione come danzatrice e coreografa) aveva trasformato lo sventolio di un ventaglio in una danza a tratti fluida e a tratti sincopata a margine della scena, e perfino il batterista Ahlman, sul fondo, era scivolato giù dal palco come uno degli orologi molli di Dalì.
Lo scandagliamento anatomico – affidato alla musica e alla poesia e, nel suo apice, alla danza – avrebbe potuto essere più curato e approfondito, soprattutto sul piano fisico, invece appare abbozzato e in definitiva poco convincente. È probabile che su questa e altre scelte compositive abbiano pesato i problemi di salute di uno dei componenti del gruppo, ma rimane l’impressione di un’occasione un po’ sprecata. Peccato, perché le ispirazioni erano molteplici e accattivanti.
Elina Pirinen ci racconta come è nata la versione di Napoleon Pink Horse creata appositamente per il Festival Primavera d’Europa/02 e perché hanno scelto di concludere la serata con una cover di “Ciao amore, ciao”: