GIULIA MURONI| Un faro caldo illumina un corpo nudo, di spalle, attorcigliato. Sopra il tavolo coperto da una tovaglia rosso rubino, un bonsai morto. Dall’altra parte della scena una poltrona e tre oggetti pendenti dal graticcio: un microfono, una parrucca e una lampada dalla foggia bizzarra.
Sabine Molenaar apre con questa immagine, di eco lynchiana, il suo assolo “That’s it”. Nel silenzio si muove spasmodica e contorta, infilandosi in un tubino sui toni del marrone. In piedi, la scomposizione del movimento a partire dalla disarticolazione degli arti conduce a estremi virtuosistici di iperestensione. Le luci laterali blu e rosse e una composizione sonora fatta di rumori, bassi e ansimi arricchiscono il quadro, già reso evocativo e inconsueto dalla qualità scomposta e elastica del corpo della danzatrice. Questa dissezione del movimento è però presto sostituita da una danza dalle movenze ampie che ha il suo focus sulle braccia e sulla schiena. È un cambio che avviene gradualmente, attraverso l’atto di indossare un abito da sera celeste, la cui lunga gonna si distende e si avvolge, creando, al muoversi, strascichi sensuali. Anche la musica si trasforma, la filigrana sonora si fa ibrida: al rumore s’intervalla un’armonia sincopata che acquista spazio fino a sostituire la composizione di rumori. La danza assume un’eco espressionista, i caratteri di drammaticità e lirismo prendono il sopravvento con una netta cesura rispetto all’astrattezza formale di poco prima. Segue un ulteriore trasformazione, scivola il vestito color pastello, Sabine si stringe in una gonna rosso cangiante, indossa una folta parrucca scura e emette suoni rochi al microfono. Immagine perturbante, in cui il magnetismo della danzatrice è esasperato, quasi compiaciuto. La danza è assente, sostituita da una gestualità sinuosa. In conclusione, tolta la parrucca, è a partire da una postura incurvata che si sviluppa una qualità di movimento che, oltre i confini estetici, affronta le possibilità espressive di una corporeità difforme. Simile per certi aspetti all’eccellente ricerca di Francesca Foscarini in Grandmother, qui Molenaar abbandona le contorsioni e le seduzioni e si confronta con una qualità fisica originale. Il ventre si gonfia a dismisura al respiro, le vertebre sporgono e le braccia tracciano disegni scomposti. Se pietà di me senti, aria tratta dal Giulio Cesare di Haendel, gremisce il quadro potente che chiude lo spettacolo.
Il tentativo è quello di calarsi tra i meandri di un sottobosco onirico popolato da mostruosità magnifiche dai contorni sfuggenti. In quest’atmosfera densa di inquietudini è un corpo in perpetua metamorfosi a vagabondare tra identità chimeriche. Un ricco disegno luci pennella con eleganza la scena: la luce colorata laterale s’alterna alla bianca frontale esterna alla scena, un fascio caldo cala a pioggia durante le rauche esalazioni e le luci della ribalta sottolineano l’enfasi di certi istanti. Se da un lato l’atmosfera è pienamente ottenuta e si assiste ad una costellazione di immagini affascinanti, d’altro canto quel modo di saltare da un personaggio all’altro rischia di inciampare in un certo autocompiacimento. Si sente la mancanza di un attraversamento coerente di anche una sola di quelle qualità, di cui ciascuna possiede un’infinita chance di risoluzioni. Molenaar è una danzatrice eclettica, in grado di destreggiarsi tra qualità fisiche differenti, e inoltre una donna bellissima. Sta tutto nel farsi carico di queste peculiarità senza che diventino uno specchio su cui ritornare, limitando così le possibilità espressive impreviste, tra cui il coraggio di affrontare ciò che è orrido e spaventoso, componenti essenziali del mondo onirico.
Nei giorni del festival Primavera d’Europa/02 abbiamo rivolto qualche domanda a Sabine Molenaar: