SILVIA TORANI | Hofesh Shechter è un artista che ha fatto della riflessione politica un’impronta di stile. Le dinamiche di gruppo, la coralità, gli sviluppi possibili della libertà individuale nella massa erano al centro di coreografie come In your rooms e Political Mother, presentate entrambe in occasione di precedenti edizioni del Romaeuropa Festival. Ma Sun sembra spingere oltre il limite. Shechter mette ora in discussione le nostre esigenze di spettatori, il senso stesso del teatro come fucina ideologica. Ci seduce per attaccarci con ritmi assordanti; ci rassicura per spiazzarci; ci condanna per poi prendersi gioco di noi. E questa operazione sembra acquistare un senso ancora più eversivo nell’ambiente borghese e un po’ snob del teatro Argentina di Roma.
La musica ha un volume così violento da indurre la produzione a fornire al pubblico tappi di spugna per proteggere le orecchie dai suoni troppo forti, ma non c’è fuga dalle ondate di frequenze che scuotono le poltrone e i palchetti, non c’è barriera per sottrarsi allo spettacolo crudele della storia umana. Né ci possiamo nascondere quando le luci in sala si accendono e ci privano della protezione del buio, quell’ultima illusione di non aver nulla a che fare con ciò che ci stanno mostrando.
La danza mette in scena le dinamiche del potere e lo fa esibendo la propria funzione di mera rappresentazione: sagome di cartone mimano per noi la vecchia favola di lupi contro pecore. Ma la favola assume connotati sempre più riconoscibili e perturbanti. Il sole cui la coreografia si ispira non dispensa la vita senza generare violenza e totalitarismo; la luce che colpisce buoni e cattivi indistintamente li rende tutti responsabili della propria schiavitù.
Un danzatore-burattinaio (tradizionale eteronimo del coreografo almeno dai tempi di Coppelia) sembra guidare nell’ombra la danza del potere. Il suo costume, chiaro come gli altri, non ha particolari segni distintivi che ne aiutino l’identificazione, tanto che nei momenti più corali finisce spesso col perdersi nella massa indistinta. Ma in realtà ciò che lo rende diverso è solo la cinica consapevolezza del meccanismo di cui fa parte. Più che dirigerlo, sembra riconoscerlo e invocarlo, così che anche il suo corpo è ridotto a marionetta scomposta e attratta dal suolo.
Shechter ci mostra un mondo privo di innocenti. Tutti partecipano più o meno consapevolmente al rituale diabolico che assegna a ciascuno un ruolo, in una partitura che provvede alle sue stesse eccezioni: è il caso del fool, che danza fuori dal coro ma finisce per giustificare la violenza del sistema contro di lui; un capro espiatorio che con la sua morte condanna il mondo invece di salvarlo, un giullare che invece di sovvertire lo status quo, lo glorifica sulla strada della violenza.
Il corpo dei danzatori si disarticola in un processo decostruttivo che denuncia la struttura perversa del narrare. Lo spettacolo inizia infatti con l’anticipazione grandiosa e rassicurante del finale, premesso per ricordarci, come ci annuncia la voce in fuori campo, che everything is going to be fine. Eppure quando la coreografia raggiunge il suo climax, l’azione si blocca invece di scemare verso la “naturale” conclusione. Le luci in sala si accendono e il burattinaio ci interpella individualmente con lo sguardo, mentre la voce over recita i capi di imputazione che pendono sulla nostra civiltà. Siamo messi a nudo, colti in flagrante mentre attendiamo compiaciuti la catarsi estetica dell’assoluzione.
È una riflessione che coinvolge le radici stesse del teatro occidentale e ironizza sulla nostra pretesa di restare spettatori innocenti, cui basta l’assicurazione che no aminals were harmed in the making of this production. Tornato il buio, lo spettacolo ci dà infine ciò che volevamo. Here’s your fucking finale: una resurrezione gloriosa della danza, un trionfo carnevalesco che chiude la parentesi impegnata e ci riconsegna allo scorrere indifferente delle nostre vite.