SCOLARI-FRANCABANDERA |
SC – Ofelia è tonta, nera di pelle, con un ciuffo riccio all’insù. Claudio è fascinosamente problematico. Polonio è un perfido censore nella redazione di un quotidiano. Laerte è storpio e Rosencrantz ha i calcoli. Guildenstern parla di chakra e Gertrude rivendica la propria vita di donna, negata. Amleto padre non è così amato, il popolo non lo piange, Amleto figlio ce l’ha decisamente con lui e si sfoga scrivendo con una Olivetti.
FR – Lettere che non è dato leggere, messaggi in codice che sono l’unica cosa che di questo allestimento allo spettatore non è concesso di conoscere (forse perché di fatto sconclusionati, come tutto l’universo interiore di Amleto), perché per il resto, la riscrittura del classico compiuta da Shahram Ahmadzadeh “dall’immortale Amleto di William Shakespeare”, portato in scena da Arash Dadgar (regista e scenografo dello spettacolo) con il Quantum Theater Group è un esito davvero alto e profondamente contemporaneo che sa parlare allo spettatore in modo potente.
SC – L’adattamento iraniano dell’Amleto visto al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano è sorprendente prima di tutto per la rilettura originale dei personaggi, poi per l’irriverenza rispettosa verso il testo, rivisto con acuminata disinvoltura, e poi ancora (finalmente!) per la capacità di insinuare il paragone tra Danimarca e Iran in modo mai banale, senza sfiorare le banalità delle infinite e inutili attualizzazioni di Shakespeare.
FR – Gli interpreti sono quasi tutti in abiti civili contemporanei, il becchino è un operaio di cantiere. L’unica che sfugge, quasi a sancire il suo codice di carattere universale di sposa abbandonata, è Ofelia, in abito bianco. L’allestimento riesce perché nei suoi vari codici, da quello scenico a quello interpretativo, per arrivare a costumi e suoni, cerca una attualità autentica, non sforzata. La scena infatti è un ponteggio di cantiere con un primo piano quasi ribalta teatrale, mentre il piano inferiore, che diventa aldilà, sono 4 porte pronte a favorire il trapasso dei protagonisti. Sono i lavori in corso in una società in transizione, dove vigono ancora vizi privati e pubbliche virtù. Il luogo pare indefinibile, eppure così vicino a casa nostra.
SC – Dove siamo? Non a Elsinore? Certo non siamo in un giardino zen come ha scritto sul Corriere Magda Poli, evidentemente ingannata dal navigatore… Ce lo dirà il becchino, dove siamo, un saggio becchino che tiene le fila di tutta la tragedia. La tragedia è in Danimarca, ma la tragedia È la Danimarca, perchè questa terra gira intorno alle morti e alla morte. Il becchino prepara fosse di tutte le dimensioni, su ordinazione, prende doviziosamente le misure con il suo metro da geometra della fine e sopravvive a tutti. Fa le veci di Orazio, e con maggior distacco racconta la storia di una famiglia, di un regno e di un paese tramite una inesorabile teoria di cadaveri: re e servi, donne e uomini, giovani e vecchi, soldati e traditori. Il resto non sarà silenzio ma buio, nell’ultima battuta, in bocca proprio al becchino.
FR – E’ un Amleto che guarda ad un letterario molto ampio, che il regista raccoglie e proietta mescolandolo a spasmi da società orwelliana, in cui dittatura e società si mescolano prendendo l’una i vizi dell’altra.
SC – Censura e durezza del regime sono inserite con inventiva ma in assoluta coerenza con ciò che in Amleto c’è ma non siamo abituati a vedere. Shahram Ahmadzadeh ha impiegato 4 anni per riscrivere il testo e la complessità del suo lavoro è evidente e meravigliosa. Due monologhi in particolare hanno dato quella sensazione unica e rara di commozione e godimento per quello che si sta ascoltando: Amleto che inveisce contro lo spettro del padre: “Tu mi dici vendetta, ma qual è il senso della tua parola vendetta? Io vorrei che le parole sapessero che sono io a sceglierle e a metterle in fila, vorrei che le frasi sapessero che sono io a costruirle!”, bellissimo, no?
FR – Bello quanto angosciante il fatto che poi, nonostante il monologo, il padre non sparisca mai. Un fantasma che non vuole andar via, che ricorda ad Amleto in ogni istante della sua presenza e del suo fallimento in una vendetta/presa di potere di cui è incapace, come forse le migliaia di giovani che fra primavere arabe e occupy something non arrivano a sfiorare il colpo ma senza metterlo a segno mai.
SC – E Claudio che confessa con rabbia il suo crimine al prete: “Scenderà abbastanza pioggia per lavare il sangue da queste mani? Dio mi perdonerà? Ho deciso di pregare ma non so che dire, andrò da lui, lassù, a chiederglielo!” Che invettiva trascinante! A me che ho un debole fortissimo per Amleto, questo spettacolo ha confermato che a Elsinore c’è tutto: la guerra, il tradimento, la lealtà, l’amicizia, la vendetta, l’inganno, l’amore, la delusione, la rabbia, la passione, la stupidità, il rispetto, il teatro. Ecco perché Amleto è inesauribile.
FR – Figuriamoci poi nel sentirlo parlare una lingua che profuma di Persia ma sa indossare una durezza quasi teutonica. A volte, come in tutti gli spettacoli con sovratitoli, si prova perfino l’ebrezza di lasciar andare le parole in sovrimpressione per guardare gli attori, cercare di intuire cosa stanno dicendo dall’intensità dei suoni che non ci sono familiari. E il naufragar è dolce in questi suoni d’Amleto così inusuali, lasciando la mano al drammaturgo per affidarsi completamente alla regia e agli attori.
SC – La regia di Arash Dadgar muove tutti i bravi attori con grande ritmo, con attenzione continua al complesso della scena. Ricordiamo anche che Dadgar è nato nel 1973, dal che osiamo dire che se un regista è bravo, a 41 anni è cresciuto da un pezzo e può fare spettacoli adulti. Se poi dovessi dire qual è il senso speciale di questo Amleto direi che è in mano al becchino, fulcro di tutto e personaggio intenso perché è il tramite tra vivi e morti, li mantiene in continuo dialogo e giustifica che i due mondi si parlino: i morti non sono fantasmi ma le molle che muovono i vivi all’azione.
FR – In fondo è un Amleto bello perché sa essere sé senza essere sé, non recita monologhi il cui unico scopo è appagare spettatori in cerca di momenti scontati del testo, di cui magari poi non comprendono neanche il significato. Questa riscrittura cerca invece il significato profondo del testo, e non ha paura di mettere una croce sull’oleografia del classico, anche sottoponendosi al rischio che qualcuno gridi al tradimento. Ma alla fine dello spettacolo è davvero impossibile, perché rivivendolo, rivivendo quei personaggi, le loro presenze, assenze, i loro detti e soprattutto i loro non detti, Elsinore sa diventare Tehran e casa nostra. Come si deve a un classico. E ad ogni riscrittura che voglia rinnovarne la grandezza e l’eternità.