RENZO FRANCABANDERA | Per l’ultimo dei quattro ascolti veniamo fatti accomodare nell’anticamera di un veterinario in zona Navigli, a pochi metri dall’ingresso di Teatro i. Un cane trascina al guinzaglio la sua padrona, inforcando la porta in uscita, mentre le nostre cuffie offrono un soliloquio ininterrotto sul tema dell’amore.
Sulla panchina siamo in tre. Come eravamo in macchina in tre. E al tavolino del bar. E del ristorante. Ma lì si parlava di morte, sesso e denaro.
Il progetto e’ quello di Rubidori Manshaft/Officina Orsi che raccoglie di nascosto brandelli di conversazione a ignari interlocutori per montare poi alcuni audio documenti monotematici che rendono un’idea certamente parziale e non esaustiva ma sufficientemente caustica e deflagrante di un tempo, il nostro, che ha superato le colonne di Ercole della conoscenza e dell’esperienza ma che non sa più tornare verso un’Itaca di certezze individuali e naviga alla deriva senza più tappi per le orecchie utili a resistere alle più crudeli sirene.
Daria Deflorian, Cinzia Morandi e Monica Piseddu danno voce ad un finale che e’ il condensato del pensiero dell’artista, le parole poetiche che dovrebbero fungere da contraltare e ossimoro, o chiasmo.
L’idea, realizzata con la collaborazione artistica di Paola Tripoli e’ uno dei primi esperimenti di performance audio/video che viene realizzato e circuitato in Italia, con la coproduzione di Festival Benevento Città Spettacolo/LIS Lab Performing Arts, Meina/ Fondazione Piemonte dal Vivo/FIT Festival Internazionale del Teatro Lugano/ Assessorato allo Spettacolo – Comune di Lecce e Must Museo.
Dopo il video e le tracce audio, unite ad un percorso itinerante come quello scelto per l’allestimento a Teatro i di Milano, cosa resta allo spettatore fra le dita?
Certamente un’esperienza non logico-aristotelica, conseguenziale o connessa. L’obiettivo e’ chiaramente la resa di un senso profondo di sconnessione, di saturazione del vivere e soprattutto di esorcismo delle paure ancestrali, come quella della morte, attraverso il ricorso alle bulimia sociali, come quelle del sesso e del denaro (per tacer del gioco, delle droghe, ecc).
Nella versione a noi proposta, la gamba poetica del tavolino e’ parsa un po’ troppo fragile per poter compensare un addensato sonoro proposto con una tecnicità, quella del blob audio, a cui ormai (complice la multimedialità esasperata e il fluxus ininterrotto di stimoli quotidiani) siamo sovraesposti. Forse una riorganizzazione dei momenti fruitivi di quella che è ora l’ultima parte della performance (e che potrebbe essere proposta anche all’inizio o in altri momenti del tempo della performance) potrebbe giovare sia a chi partecipa che all’intento artistico, che se ne gioverebbe in chiarezza e slancio.
Resta uno dei pochi lavori di teatralità performativa di solo supporto tecnologico disponibile in cartellone al momento. Per quanto assurdo possa sembrare, la digitalità ancora dialoga poco con le arti sceniche e i risultati finora proposti sono pochi e spesso non all’altezza.
12parole7pentimenti ha quindi il pregio di portarci, nell’assenza fisica di chi può essere mediazione fra noi e la creazione d’arte, ad un rapporto molto diretto con questioni enormi del vivere quotidiano, fa capire quanto la prossimità di uno sconosciuto spettatore possa diventare senza motivo apparente imbarazzante e problematica, quanto il nostro tempo misconosca la sfera sentimentale e l’antico rituale che lega l’uomo alla morte, mentre conosca in modo approfondito ogni perversione e dinamica superflua. Ci sembrano stimoli interessanti per una riflessione artistica, che può ancora crescere sia nel concetto generale che nel rapporto con il pubblico, migliorandosi.