MATTEO BRIGHENTI | La parola scioglie la lingua al pensiero. La voce, invece, ci distingue dagli altri: a meno di imitarla non ne esiste una uguale all’altra. Ognuno dei 22 performer della Suite n°1 “ABC” a Contemporanea Festival 14 ha un proprio modo di abitare le frasi, come suoi sono i vestiti che indossa o soltanto sue le gambe per stare in scena. Non è cosa diciamo, è come lo diciamo che ci rende unici. Il regista/drammaturgo Joris Lacoste e la Encyclopédie de la Parole danno prova che la voce è l’emisfero sinistro del respiro, quello che afferma: io sono. E lo fanno spalancando le bocche a un coro sorprendente per rigore, disciplina e agilità.
Ideata da Lacoste al Laboratoires d’Aubervilliers nel 2007, quando ne era co-direttore, la Encyclopédie de la Parole è un progetto artistico che esplora la lingua parlata in tutte le sue forme. Musicisti, poeti, artisti, etnografi e sociolinguisti hanno collezionato in un sito-archivio circa 800 documenti acustici di pronunce orali e le hanno classificate con l’obiettivo di smontare i meccanismi della comunicazione orale.
Grazie allo sforzo congiunto del network Finestate Festival, di Institut Française e Nuovi Mecenati nell’ambito del progetto Transarte, dopo Santarcangelo •14 e Short Theatre 9 di Roma l’orchestra vocale della Encyclopédie de la Parole è arrivata anche a Prato. Negli anni hanno prodotto performance, installazioni, laboratori, ma anche ‘suite chorale’ come la Suite n°1 “ABC”. 11 attori, 11 ospiti locali e 1 ‘direttore d’orchestra’ hanno riprodotto il più fedelmente possibile 36 registrazioni contenute nella Encyclopédie, dal monologo allo specchio di Robert De Niro in Taxi Driver, You talkin’ to me?, alla lettura di Mentana di un lancio di agenzia, Nove miliardi, dai ringraziamenti di Obama alla Convention nazionale dei democratici nel 2008 (l’anno della sua elezione), Thank you, a un incontro di Occupy Wall Street, Empower each and every voice.
La Suite n°1 “ABC” ‘suona’ quindi la grammatica empirica della nostra oralità, tra il gioco delle traduzioni e il mistero delle lingue che non capiamo, entrando musicalmente nelle parole, riproducendo la cadenza di Slavoj Žižek, il timbro di Maria Callas o l’intensità di Klaus Kinski. L’overture è una vociante Babele da marciapiede. Sembra di assistere a una versione concentrata dello scorrere quotidiano del nostro blablabla. Parlare, però, non significa ascoltarsi per ricordare che abbiamo ancora qualcosa da dire. Significa confrontarsi, scambiare parole con silenzio, interloquire. La voce ci rende unici: io sono. Nell’incontro con gli altri quell’unicità diventa identità: io sono me. L’interlocutore naturale dei 22 elementi in scena è il ‘direttore d’orchestra’ che riporta nel coro l’ordine dell’unisono. Con un alfabeto preciso di gesti dirige le allitterazioni, i tic verbali, il colore delle sillabe: tutto, nel parlare, è musica, anche il colpo di tosse e lo schiocco del palato. I 36 brani in programma sono movimenti nel senso letterale (potrebbe essere altrimenti?) del termine, cambiano gli interpreti e varia la loro posizione nello spazio, modulando distanze e forzando i limiti del linguaggio, che sono i limiti stessi del mondo, come diceva Wittgenstein. Fino a conquistare la semplicità a impatto pop dei Jackson 5 in una rima della canzone ABC: “ABC it’s easy, easy as 123”. ABC è facile, facile come 123.
Per niente facile è l’esercizio di ginnastica fonetica dei 22 performer sul palco. Un errore, che a un certo punto spezza l’armonia, ci ricorda che sono esseri umani come noi e non alieni della dizione. Ma subito ripartono con la voce sostenuta che avevano prima. Di diverso c’è solo la bocca spalancata che, adesso, è uno scanzonato sorriso.
Molto molto interessante e favolosamente scritto.