GIULIA MURONI – GIULIA RANDONE | Il Festival Primavera d’Europa/02 che abbiamo a lungo raccontato si è concluso con Alice delle meraviglie, del collettivo di ricerca e pratica teatrale Macelleria Ettore. Dopo giorni di pioggia il cielo è tornato sereno e lo spettacolo è stato allestito all’aperto, come originariamente previsto. In un cortile affacciato sulla Val di Susa, nel freddo che preannuncia l’autunno, abbiamo visto la performance e poi ne abbiamo chiacchierato insieme.
GR: Interessante, l’Alice di Macelleria Ettore. Dichiaratamente trentenne, è lontana dall’età infantile, ma fermamente intenzionata a non “contrarre l’adultitudine”. In dialogo con un “tu” e con se stessa, fa le prove generali della propria vita in caduta libera, tentando di capire il mondo e aggrovigliandosi nei propri pensieri. Tutto ciò senza mai alzarsi da uno sgabello. A volte spinge le braccia e le gambe lontano da sé, come a voler esplorare il mondo, ma non sembra realmente interessata al contatto fisico con l’esterno: tutto accade nella sua testa.
GM: È un’Alice che perde un po’ di quella naïveté e dell’entusiasmo, misto all’inquietudine, caratteristico del personaggio, per lasciare spazio a uno sguardo quasi disincantato sulla realtà. Mi viene in mente la frase, tremendamente attuale, con cui si definisce: “Per sempre emergente che tenta di emergere dall’emergenza”.
GR: Una definizione azzeccata! Certamente la drammaturgia – costruita a partire dai testi “Alice nel paese delle meraviglie” e “Attraverso lo specchio”, ma anche dalle lettere di Lewis Carroll e dalle inserzioni della regista Carmen Giordano – è un punto di forza dello spettacolo. Presenta diversi snodi poetici, è intrigante e dinamica. L’unico difetto è che risulta un po’ prolissa. Se poi si assiste allo spettacolo alle undici di sera si ha l’impressione che le parole siano davvero troppe…
GM: Anche se “Alice nel paese delle meraviglie” fa ormai parte dell’immaginario collettivo, questa drammaturgia è originale, offre altre prospettive al testo. Riesce a parlarne in modo elaborato, non scontato e la messa in scena è interessante e abbastanza efficace. Secondo me però c’è un problema: Alice è distante. Vive in un mondo buffo in cui accadono le cose come vuole lei, ma non riesce del tutto a essere coinvolgente.
GR: Ti do ragione. Personalmente non vado pazza per il mimo: come linguaggio scenico mi appare un po’ datato. Di conseguenza le scelte in questa direzione, evidenti fin dal trucco e dal costume, mi fanno sentire distante e un po’ mi annoiano.
GM: In particolare a me appare un po’ obsoleto l’habitus corporeo del mimo. Forse per dare respiro alle maglie del testo si sarebbe potuto ricorrere a un maggiore uso dello spazio scenico e del corpo. Che ne pensi della recitazione?
GR: Maura Pettorruso è brava a governare l’alluvione di parole e a mostrare l’ipertrofia della mente della protagonista rispetto al resto del corpo, che infatti si muove per conto proprio. La prova più impegnativa, però, la affronta nella costruzione della trama vocale. I protagonisti del mondo delle meraviglie saltano dentro alla sua voce, fronteggiano Alice e, così come sono venuti, scompaiono. Nel timbro dell’attrice, alcuni si richiamano esplicitamente al modello disneyano. A proposito, hai sentito le risate di un gruppo di bambini invisibili (credo giocassero nel buio alle nostre spalle) quando hanno riconosciuto l’affannato “È tardi! È tardi!” del Bianconiglio o gli imperativi della Regina di Cuori? Sembravano rispondere alle domande di Alice-Pettorruso con un’inquietante risata senza volto, degna dello Stregatto!
GM: È evidente che ci si trovi davanti a una recitazione formalmente di livello, eppure qualcosa è mancato e quest’assenza forse si può ricondurre a un dispiegarsi sempre molto acceso dei timbri vocali o forse alla fisicità costretta. O magari è semplicemente alla base della scelta di proporre un’Alice matura, riflessiva, smarrita tra i rigagnoli dei suoi variopinti pensieri. Un’Alice cerebrale, che concede poco al pubblico in termini emotivi. Tuttavia si tratta di un lavoro senza dubbio elegante, in cui le luci costituiscono una componente essenziale. La partitura di luci, ad opera di Alice Colla, è composta dai colori primari che formano il bianco e si staglia su una scena avvolta nella bicromia bianco/nero. Un fascio dall’alto nei momenti di introspezione, in cui Alice cade dentro se stessa. Controluce e frontali esterni sui toni del rosso, del verde e del blu si alternano in un fitto dialogo con i personaggi. Questo ricco disegno luci, intessuto alla drammaturgia, secondo me dà un valore aggiunto allo spettacolo.
GR: Anche io ho apprezzato moltissimo la partitura luminosa di Colla, che mette in risalto le caratteristiche del discorso di Alice, il suo gioco di dire una cosa e poi il contrario, i ragionamenti bizzarri e le frasi ad effetto. Il dialogo tra parola e luce contribuisce a isolare Alice. Il problema è che allontana da noi anche l’attrice. Forse era l’obiettivo della regista, di certo rende difficile appassionarsi alla storia narrata. È difficile entrare in relazione con questa Alice elucubrante, sentirsi coinvolti, compartecipi.
GM: È vero anche che, di tanto in tanto, ci sono momenti molto riusciti, in cui l’ironia fa da padrona e si attiva un coinvolgimento, non sono intellettuale, con Alice! Purtroppo, però, sono solo una piccola parte. Invece che ne dici della musica nel finale? L’ho trovata stridente rispetto a tutto il resto…
GR: L’attacco mi ha ricordato la punteggiatura sonora minimale di “The Bell Tolls Five” di Peter Von Poehl e mi ha fatto sperare in un epilogo più sperimentale. Invece, una canzone dalle sonorità pop e dal testo didascalico fa da sfondo a una sorta di album in movimento, in cui passano in rassegna le più importanti azioni fisiche dello spettacolo. Peccato.
GM: Nel complesso un esercizio di bravura stilistica, un’architettura scenica ben costruita ma in difetto di emotività. In fondo, e qui mi approprio di quella naïveté che Alice ha abbandonato, l’emozione non è uno dei motivi per cui andiamo a teatro?