GIULIA RANDONE | Tre anni fa Maguy Marin ci aveva lasciato con una tavola imbandita e una comica battaglia a colpi di torte in faccia. Così terminava Salves, spigoloso e magnifico affresco dei nostri secoli. Chi ha avuto la fortuna di assistere a quello spettacolo, ritrova in BiT (2014) e Nocturnes (2012), i due lavori della coreografa francese in prima italiana al Festival Torinodanza, richiami sonori e visivi, suggestioni plastiche e la stessa attenzione per le forme assunte dall’essere umano nell’intreccio con i suoi simili. E parlare di forma significa parlare di ritmo, fondamento del lavoro scenico di Maguy Marin, che non a caso presenta la sua ultima opera citando il linguista Emile Benveniste: «Le rythme, c’est la forme, dans l’instant qu’elle est assumée par ce qui est mouvant, mobile, fluide, c’est la forme improvisée, momentanée, modifiable».
In BiT la forma ricorrente, continuamente ripresa e variata, è quella di una danza popolare provenzale, la farandola. Sei figure umane emergono da altrettanti pannelli inclinati, scenografia imponente ed essenziale: tre uomini e tre donne si prendono per mano, oscillano in avanti e indietro e disegnano semplici movimenti con i piedi e le braccia. Questa catena umana riproduce movimenti precisi e convenzionali con lentezza, non conosce ostacoli, traccia diagonali sinuose e si arrampica sui pannelli. Poi si fa prendere dal gioco e aumenta la velocità: la catena è ora un cerchio di mani che tengono il tempo, un lunapark di autoscontri, capriole, salti e giacche di cui liberarsi, per poi ricomporre la fila e riprendere la farandola. A prima vista il movimento ondulatorio appare rassicurante, sembra testimoniare una fratellanza gioiosa; in realtà i danzatori si trasformano in una setta di incappucciati che, con l’accompagnamento di una musica techno, getta a terra un compagno, inscena un compianto e infine abusa della vittima.
Una violenza priva di furia, gelida, meccanica, anticipata da un tableau spaventoso, da girone infernale: dall’alto di un pannello si srotola un tappeto rosso, brulicante di corpi seminudi e intrecciati che scivolano con estrema lentezza fino a rotolare sul pavimento. Qui si accoppiano con spasmi desolati, si scambiano impassibili i partner per poi sparire, arretrando nella penombra. In scena rimangono soltanto due uomini, nudi, con una cintola nera, che si sfidano a quattro zampe, si fronteggiano come animali, avvicinandosi e allontanandosi con i movimenti a scatti degli insetti, finché una creatura non ricaccia nel buio l’altra.
Verso la fine dello spettacolo, anche un uomo e una donna restano isolati sulla scena. La catena umana, arrampicatasi sui pannelli in eleganti abiti da sera, si è spezzata e questa rottura sembra innescare un ulteriore episodio di violenza e prevaricazione sessuale. Come se l’umanità potesse convivere senza soprusi solo assumendo la forma di un festone, perennemente minacciato dal taglio dell’ultima delle tre Parche, che infatti sfilano dietro ai pannelli filando, avvolgendo e recidendo il filo della vita con un secco rumore di forbici.
Se l’ouverture era stata affidata alla voce di Carmelo Bene e ai versi della Divina Commedia, che avevano saturato la scena ancora disabitata del Teatro Carignano, le azioni di questo consorzio umano sono accompagnate da sonorità elettroniche, voci indistinte e distorte, e da un rumore persistente, come di aspirapolvere.
Un suono affine ma più potente riempie il buio di Nocturnes, visto alle Fonderie Limone due giorni dopo BiT. Ricorda un reattore aereo e durante la performance si ha un po’ la sensazione di trovarsi su un aeroplano in fase di decollo, nel tempo sospeso in cui in cabina si spengono le luci e i passeggeri, immersi in quel suono profondo, partecipano allo sforzo della macchina per staccarsi dal suolo e prendere quota. Una tensione verticale che prelude a un apice: quando la resistenza è vinta e la cabina torna a illuminarsi su una situazione ordinaria e tuttavia nuova. Qui, però, nel buio denso di rumore, la tensione del decollo si disperde tra frequenti istantanee di luce, come se i passeggeri giocassero fastidiosamente ad accendere e spegnere la lampadina sul proprio sedile, confinandosi in un eterno rullaggio. Una luce bianca inquadra, per pochi secondi, frammenti di vita quotidiana, apparizioni mute e misteriose, cortesie tra vicini di casa, dialoghi tra persone che parlano lingue differenti, un cumulo di sassi che viene costruito e sempre crolla, uomini e donne che avanzano imprimendo la forma della mano su una lavagna in uno stanzone scuro e disadorno.
Il ritmo è scandito dalla luce, dalla cadenza della lingua francese, italiana, spagnola, tedesca, greca e araba, da un corpo che il buio inghiotte mentre è sul punto di fare qualcosa. I protagonisti – Ulises Alvarez, Kaïs Chouibi, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, Mayalen Otondo ed Ennio Sammarco – sono interpreti raffinati. Se in BiT risaltavano come danzatori-attori, qui, in assenza di movimenti danzati, si dimostrano bravi anche a padroneggiare il canto e la parola recitata. Peccato che l’interminabile sequenza di micronarrazioni di Nocturnes, apparentemente non legate da alcun filo logico, spesso ripetute, non incoraggi lo spettatore a operare alcun montaggio personale e, a poco a poco, lo confini in una condizione di annoiata irritazione.