RENZO FRANCABANDERA | E’ ispirandosi ad un testo abbastanza sconosciuto di Goffredo Parise che Archivio Zeta torna in scena dopo le tradizionali date estive al Cimitero della Futa: una drammaturgia ricavata da due brevi racconti pubblicati nel 1969 e poi totalmente rimossi dalla cultura italiana, mai più ripubblicati e attualmente fuori catalogo.
Invece questi due testi diversi ma prossimi per argomento e concetto sono secondo gli artisti “una meditazione lucidissima sulla barbarie in atto, sulla violenza che regola i rapporti, una diagnosi spietata della nostra tecnocrazia, della nostra discarica morale e materiale”.
Fotografie in formato gigante, alte tre metri e larghe cinque, scattate da Franco Guardascione in una discarica a cielo aperto nel sud Italia delimitano uno spazio quadrato di sette metri per sette. Il pubblico è disposto negli angoli del quadrato. Massimo 20 persone per volta. Seduta al centro di questo spazio geometrico, ridelimitato al suo interno da una pavimentazione di ugual forma in plexiglass lucido, Enrica Sangiovanni si gira su se stessa su di una sedia girevole, mentre Gianluca Guidotti le gira attorno, iniziando un dialogo che ha un che di platonico.
Si parla infatti delle accuse (e ovviamente della difesa) mosse ad un assassino autore di crimini e stragi di massa. Lui l’accusa di strage, lei argomenta in modo paradossale e filosofico, quasi che il cecchino non abbia in animo l’omicidio volontario ma una sorta di malata e totalmente preterintenzionale sfida con il fato. Anzi, la strage sublimerebbe l’intenzione di non scegliere questa o quella vittima, ma di esaltare un compito le cui responsabilità sono esternalizzate spesso in una volontà altrui.
Non casuale dunque il sottotitolo di questo spettacolo, ceneri di logica e morale dal crematorio di Vienna, diretto e interpretato dai due componenti e fondatori di Archivio Zeta in un dialogo che finisce per avvicinarsi ai più famosi paradossi di Zenone che, come scopo, avevano quello di argomentare contro il divenire.
Come nel paradosso della freccia, secondo cui una freccia scoccata dall’arco sarebbe ferma in ciascuno dei luoghi in cui viene a trovarsi, perciò da una somma di stati immobili non si può produrre movimento, così l’etica del cecchino e la casualità nella non scelta delle vittime lo manleverebbe da responsabilità morali, in un susseguirsi di attimi discontinui nell’intervallo fra i quali la morale viene sospesa.
Lo spettacolo fa parte del programma delle Commemorazioni Ufficiali per il settantesimo anniversario degli eccidi di Monte Sole ed è prodotto in collaborazione con la Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole-Marzabotto.
La surrealtà dello scambio appare modernissima e interessante. La durata dello spettacolo breve e fulminante. E’ il primo tentativo di Archivio Zeta di andare oltre l’impalcatura di tecnica attorale che finora ha sorretto le creazioni artistiche del duo, per aprirsi ad un mare sicuramente più pericoloso ma dal punto di vista teatrale molto più interessante e fecondo.
Il passo, infatti, vale proprio il riconoscimento di una nuova centralità dell’autore rispetto all’interprete, con quest’ultimo che prova a fare un passo indietro rispetto ad una cifra più “di mestiere” per andare a cercare il suono, il riverbero che è dello specifico drammaturgico. E’ un tentativo dunque centrale per Archivio Zeta, e come tale, in un percorso di crescita dell’intenzione artistica va segnalato come momento fondante e discontinuo. Come tutti i tentativi di cambiamento, ha in sé le tracce di quello che Archivio Zeta è stato finora e quello che può diventare, oltre quanto già fatto.
E’ il vero e grande sforzo di chi fa arte, e per questo L’uomo e le cose, con le sue piccole ma efficaci trovate sceniche, il proiettile come la freccia di Zenone fermo sulla traiettoria fra la pistola del carnefice e il corpo della vittima, merita di essere visto.