RENZO FRANCABANDERA | Uno spettacolo che è un volo pindarico di cui fino a pochi metri dall’atterraggio non si vede la pista, perché molte tracce sono annodate. Ma alla fine sorprendentemente, le luci appaiono, l’aereo si mette in posizione e le ruote toccano, riportando lo spettatore su una pista di arrivo in cui i segni si riuniscono in un punto d’arrivo concettuale chiaro, comprensibile e che giustifica l’operazione.
Parliamo di Antigone nella città spettacolo diretto e interpretato da Gigi Gherzi, in scena con Lorenzo Loris, in replica al teatro Out Off di Milano fino al 2 novembre.
Una riscrittura? In parte, in piccola parte.
Un ragionamento sulle arti sceniche? Si anche, ma non solo.
Una riflessione sulla società? Sicuramente, come Antigone in fondo è.
Tante cose assieme, tanti personaggi, veri e finti della Storia, come il monaco cristiano Almachio, fra i primi martiri della cristianità, morto lapidato in un circo nel tentativo di fermare lo spettacolo crudele della violenza. E la corrida anomala di Pedrito in Portogallo, dove non si uccide il toro, e che invece nel 2001 aizzato dalla folla finì l’animale (cosa per cui è stato multato poi 100mila euro), fino ai salotti televisivi, agone mediatico, circo delle violenze del nostro tempo dove la violenza ritrova minuziose ricostruzioni maniacali. Società e violenza, rito e dinamiche di massa, legge e potere. E più di un rimando a Contro Ismene, testo interessante dello psicanalista Zoja che ha ispirato molte delle considerazioni di questo allestimento.
Antigone sa ancora essere tutte queste cose? Ne parliamo con Gigi Gherzi.
L’idea dello spettacolo si sviluppa intorno a quello che il teatro (e la società) era nella Grecia classica e quello che è nel nostro tempo. Sei davvero così convinto della differenza o è un pretesto drammaturgico?
No, non è un pretesto. Senza retorica, l’arte cambia, sempre, rito, funzione, senso, posto che trova all’interno di un mondo. Nel teatro greco dell’età aurea della tragedia, in quei pochi decenni, davvero si sperimenta un rapporto sconcertante tra teatro e città, teatro e polis. Il teatro non è visto come “arte”, nel senso che normalmente diamo al termine. E’ uno straordinaria punto d’incontro tra rito, festa e spettacolo. Nessuna nostalgia per quei tempi. Ma fascino per un’indicazione che ci porta a immaginare futuro, che si collega con le pratiche tutte, a livello teatrale e performativo più in generale, che cercano di ritessere fili tra arte e città, arte e vita, arte e festa.
Se davvero questa differenza esiste, perché Sofocle ha sentito l’esigenza di sottoporre questo dilemma fra etica e legge già ai suoi coevi? Forse che la questione che già interessava loro?
La discussione su questo è aperte, anche tra gli storici del teatro e gli studiosi della classicità. Ti posso dare una mia risposta, senza avere la presunzione che sia “oggettivamente” la giusta. Il conflitto che Sofocle indica non é tra “legge” ed “etica” in generale. E’ conflitto con la legge nata all’interno del sistema di potere retto dai “tiranni”. Sofocle era terrorizzato da quel modello di città e di potere, Atene stessa si stava staccando con forza da quel modello, nel terrore di un possibile ritorno dei “tiranni”. Antigone segnala quel conflitto, non con la “legge”, ma con un potere autoritario, arrogante, che andava contro tutte le leggi non solo dell’etica, ma anche del “sacro”, per come lo intendeva la cultura greca del quinto secolo. Antigone si presenta alla città di Atene, e la sua storia è un antidoto a ogni tentazione di tornare indietro, di distruggere il faticoso sforzo d’invenzione di una prima democrazia, nella città di Atene.
Perché la dualità di interpreti che ha poi portato alla scelta di Loris?
Perché i protagonisti dello spettacolo sono due uomini di cultura, di teatro, radicalmente innamorati e impegnati nella loro arte. Un po’ come, diversi come siamo, io e Loris. C’è una tensione grande, in tutti i due personaggi, a trovare risposte, non sul ruolo del teatro in astratto, ma sul rapporto tra spettacolo e mondo, spettacolo e civiltà. Quelle parole ci è sembrato bello assumerle su di noi, recitarle noi, farle scontrare col nostro vissuto di uomini di teatro e di spettacolo, non affidarle a un attore esterno, ma radicarle nella nostra concreta esperienza di vita. Abbiamo fatto spesso, pur nel grande rispetto e amore reciproco per il nostro lavoro, un teatro differente, io e Loris. Questo spettacolo ci ha rimesso felicemente in gioco, come attori, come uomini. E’ stato un innamoramento artistico condiviso, che credo abbia portato a uno spettacolo sorprendente, atipico, fuori dai canoni.
Una nota su costumi e scene
Anche lo spazio teatrale che utilizzava la tragedia greca è sorprendente. Quel grande spazio semi circolare, dove il coro agiva davanti e gli attori dietro, il contrario di quello che si vede oggi a teatro! Il coro come ponte tra spettacolo e spettatori, ponte garantito dalla presenza dei “coreuti”, cittadini, non attori, che parlano ad altri cittadini. Quando in Grecia arriva la dominazione romana quel teatro viene spesso distrutto, o meglio cambiato nella forma. Dal semicerchio si passa al cerchio, il cerchio del Circo, al cui interno si fanno combattimenti e sfide mortali tra gladiatori, inaugurando così la stagione del teatro crudele, della pornografia del sangue, Così abbiamo deciso di annullare quasi totalmente lo spazio scenico dell’Out Off, utilizzando un grande schermo semicircolare e una piccola pedana, anch’essa semi-circolare, di lasciare l’azione scenica vicinissima agli spettatori, quasi proiettata su di loro. Da tutto il testo ci torna continuamente l’immagine che parlare di teatro è anche parlare di rapporto con la guerra, la violenza, per questo i personaggi hanno costumi astratti, un po’ da antichi sacerdoti, un po’ da guerrieri post moderni, con tanto di ginocchiere e di protezioni.
Antigone e Ismene. Davvero la nostra società ha scelto la seconda o è in fondo sempre stato così, ovvero che chi è disposto a compiere scelte radicali è sempre un po’ minoranza nei consessi sociali?
Antigone non è un personaggio storico! Però indica con il suo gesto un orizzonte, che va contro la legge costituita, che ne denuncia la sua storicità, il suo basarsi spesso su un delitto. Antigone è una visione, mette in discussione anche la vita, così come noi la conosciamo, con le sue paure, le sue furbizie, i suoi compromessi. Dialoga con la dimensione della morte, più collegata ai temi del sacro e dell’etica, combatte perché nessuna morte sia profanata, nemmeno quella dei “nemici” dello stato, indica un’orizzonta paradossale, per la sua epoca e per la nostra, quello di “non essere nata per condividere l’odio, ma l’amore”. E questa frase di Sofocle, che a molti di noi può sembrare retorica, oggi, ai tempi fondava un’altra idea di rapporto tra i cittadini, un’altra etica di rapporto con il mondo. E oggi, la nostra Antigone si chiede: “V’interessa ancora la mia storia? C’entra ancora qualcosa con voi o siete diventati tutti ormai troppo civili? Io v’interesso ancora, o sono solo ormai una citazione letteraria”. La nostra risposta è sì, c’interessa. E la sua storia racconta e interroga i buchi neri e le fratture della nostra vita, del nostro stare al mondo, e mette in discussione le leggi scritte e non scritte che governano il nostro agire.
Il vostro ragionamento finisce poi sulla morbosa sete di violenza, di sangue, a cui l’uomo pare non saper resistere. E’ un connotato tipicamente metropolitano? Perché la necessità nel titolo di specificare la questione della città?
Antigone, già in Sofocle, è un Antigone nella città. Antigone è la tragedia della polis per eccellenza, chiede alla città di schierarsi, si discute sul rapporto con la legge e il tiranno. La nostra Antigone è nella città di oggi, si chiede cosa succede quando i demoni fuori controllo dell’odio e del rancore invadono la vita. Nello spettacolo il contemporaneo cola sullo schermo attraverso le immagini girate e rimontate delle rivolte di Atene contro la crisi e le misure di “austerità” attraverso le immagini del crollo delle Torri Gemelle, che inaugura nel mondo una nuova stagione di odi e di vendette, attraverso la morbosità nel trattare il dolore e i corpi morti, tipica di molti talk show televisivi, a partire dall’ormai famoso plastico della casa di Cogne gentilmente offerto da Bruno Vespa ai suoi spettatori. Immagini che ci portano al nocciolo della questione: Antigone chiede rispetto per il corpo ucciso, anche quello del nemico, chiede non sia profanato. Oggi la profanazione è ovunque, è diventata industria dell’intrattenimento crudele, la profanazione fa spettacolo, audience. Antigone chiede una misura nel trattare il tema del dolore, un rispetto, proprio come tutta la tragedia greca in cui era proibito mostrare l’uccisione di un personaggio in scena, far vedere le viscere, il sangue, perché era considerato empio, una violazione delle leggi del ”sacro”. Oggi il dolore non viene più né rispettato né compreso, il più delle volte viene messo ai margini delle vite, o silenziato, quando riappare, riappare spesso come pornografia del dolore, business, intrattenimento. Insomma: “il nostro occhio feroce, belva, che vuole lo spettacolo!”. Ma Antigone aveva un’altra idea di spettacolo. E anche noi.
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