ROBERTA LEOTTI | La Venture Wolf Production ha proposto nelle scorse settimane al London Theatre l’Edward II di Marlowe, scegliendo coraggiosamente di proporre una trasposizione della vicenda nell’Inghilterra degli anni venti del secolo scorso.
Musica: mentre si svolge un party in maschera, tra lustrini e boa di struzzo, Edward apprende della morte del padre, di cui è il legittimo successore, ma, una volta incoronato re, il nuovo sovrano rivela in fretta di essere molto diverso dal defunto predecessore; alla mollezza dell’aspetto, corrispondono le scarse capacita’ di governo del re (personaggio affidato all’interpretazione dell’algido Harry Winterbottom), la cui ossessione per Gaveston, qui ben interpretato da Ramzi Dehani (al suo attivo produzioni al Royal Court e Soho Theatre) avra’ delle ripercussioni irreversibili sulla vita del suo regno.
A tenere le fila dell’equilibrio politico e’ il gruppo dei nobili; vera rivelazione della produzione.
In modo particolare nella prima parte dello spettacolo questo gruppo di attori è ben coeso e molto credibile. La loro performace mette in secondo piano quella dei protagonisti in cui spesso si riscontra una recitazione zoppicante e poco convincente. I nobili sono brillantemente interpretati da: Aw King (lo zio di Mortimer ), James Chadurn (Warwick), Philip Gill (Leicester) e Thom Short (Lancaster) che di fatto mettono in ombra un Mortimer forse un “po’ troppo acerbo” e poco usurpatore (Turan Duncan).
Sicuramente con un cast di sedici attori da gestire negli spazi angusti del London Theatre il regista Paul Vitty non deve aver avuto vita facile. Visto che le vie di fuga sono in mezzo al pubblico, il cast incontra qualche difficolta’ nelle uscite dalla scena, dovendo fare costantemente attenzione a non inciampare o non urtare contro gli spettatori.
Lo spazio è una limitazione importante per questa produzione, che riduce la scenografia a pochissimi elementi: una poltrona rossa nel centro della scena ed una grossa scatola di metallo a lato di questa.
Anche il sistema fonico sembra aver dato qualche problema. La musica in piu’ occcasioni tristemente intralcia i dialoghi in scena anziché fare da sottofondo: seppure paradossalmente non fuori luogo e forse volutamente, come nelle scene di lotta e di più aspro conflitto, condiziona pesantemente le prove degli attori che si vedono costretti ad alzare la voce.
Quel che rimane di questa produzione è una riflessione sulla natura del potere e la consapevolezza che di fatto non basta una corona per tenere le fila di un governo.