GIULIA RANDONE | Se molti eventi culturali ostentano una vocazione all’intreccio tra culture e espressioni artistiche differenti per schiudere prospettive inedite sulla realtà, Incanti, rassegna internazionale di teatro di figura curata dalla compagnia Controluce Teatro d’Ombre, tiene fede all’intento, offrendo anche quest’anno un distillato di proposte fuori dall’ordinario. Tra queste, nel calendario della XXI edizione (Torino, 4-11 ottobre) spicca Les Chants de la Mi-Mort, opera ambiziosa e programmaticamente meticcia prodotta insieme al Festival Scatola Sonora.
Nati dalla mente di Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea De Chirico), Les Chants de la Mi-Mort rispondono alla volontà di creare un’opera d’arte totale, che incorpori musica, scrittura e pittura. L’autore ha all’epoca ventitré anni e la convinzione che un uomo nuovo possa nascere solo a patto di voltare le spalle al secolo precedente, dominato dalla triade Dio-patria-famiglia e dal mito del Risorgimento. Cent’anni dopo, il regista Luca Valentino ricompone I canti della mezza morte inventando scene e costumi (i disegni d’autore sono andati perduti) e riunendo un gruppo di giovani interpreti che hanno oggi l’età che aveva allora Savinio. Lo spettacolo, ospitato alla Casa Teatro Ragazzi, è preceduto da un’introduzione del regista, che presenta la figura poliedrica di Savinio, la nascita dell’opera nel contesto delle avanguardie parigine e i suoi debiti nei confronti di Nietzsche e di Così parlò Zarathustra. Ci mette inoltre in guardia dal cercare un nesso logico tra la drammaturgia e la musica, che vanno fruite in maniera indipendente. L’insolita premessa si rivela preziosa perché offre qualche appiglio allo spettatore, che altrimenti si perderebbe tra sonorità volutamente dissonanti, monologhi visionari e composizioni di immagini aperte alle più eterogenee interpretazioni.
Sullo sfondo, gli ombristi creano un collage raffinato e suggestivo: uova colorate, forse in procinto di schiudersi, creature fantastiche, ritagli anatomici che incorniciano cuori rossi e giochi infantili, cedono progressivamente il passo a congegni meccanici, ruote dentate, navi e, infine, a un treno carico di soldati in partenza per la guerra mondiale. Macchine e uomini verso la morte. Al centro, domina la scena una torre di cartone a tre piani, attorno alla quale si consumano l’uccisione di un ragno, schiacciato dalla pantofola di una bambina, e l’omicidio di una creatura ibrida, incrocio di uomo e animale, assassinata da un suo simile. Morti “definitive” che contrastano con l’eventualità misteriosa della “mezza morte” evocata da una figura biancovestita (Paola Roman) rinchiusa nella costruzione. Sarebbe improprio definirla un personaggio, è piuttosto una voce recitante, l’unica, ed erompe da un corpo senza volto. La maschera indossata dall’inquietante narratore ricopre anche il viso delle figure nere e mute che percorrono il palco in configurazioni sempre diverse. Talvolta esseri umani reificati – pezzi di un ingranaggio primitivo o uomini-bersaglio, figli dell’Ubu di Jarry –, talvolta abili manipolatori di oggetti e pupazzi.
Accanto a questa realtà assemblata in concrezioni stranianti, abitata da personaggi senza un compito preciso o impegnati in azioni isolate e sospese nel tempo, scorre una suite per pianoforte irrequieta, talvolta disarmonica, accompagnata da canti, grida e citazioni ironiche dell’inno nazionale. I cantanti e musicisti del Conservatorio di Alessandria, in abiti da concerto, occupano il lato sinistro del palco e interagiscono con ciò che avviene sulla scena seguendo una partitura autonoma ma animata da un’analoga tensione verso le regioni del male, della morte e del mistero.
Tutti gli artisti coinvolti nel progetto meritano un plauso per il coraggio con cui hanno affrontato un materiale così ostico e scoraggiante (lo stesso autore non volle lasciare indicazioni che favorissero l’interpretazione). Chi tra il pubblico aveva familiarità con l’opera di Savinio, ha ammirato la sensibilità e la cura con cui l’ensemble, coordinato da “saviniani” di lungo corso come Valentino e Alberto Jona, ha ricreato il suo mondo surreale e metafisico. Chi invece non la conosceva, ha potuto apprezzare soprattutto le scene di cui, anche grazie alla spiegazione, ha colto il richiamo parodico: a distanza di qualche giorno, le parole del lungo monologo sono evaporate, mentre affiorano alla memoria i percorsi sonori e le immagini di un re Vittorio Emanuele a cavallo che volteggia nell’aria come impazzito o di angeli paracadutisti che vengono abbattuti a colpi di girasole.
Immergendosi nel tessuto straniante dei Canti, Valentino avrebbe potuto lasciare affiorare con maggiore audacia il registro umoristico, che in Savinio non è burla dissacrante ma accesso al reale e presa di coscienza del mistero. In questo modo il gioco anarchico di musica, parola e immagine avrebbe raggiunto l’effetto, auspicato da Savinio, di spiazzare e divertire lo spettatore e, magari, avrebbe anche ispirato al regista una chiave per inglobare la premessa nello spettacolo, trasformandola in un innesto stralunato. Si sarebbe così evitata l’impressione di una restituzione a tratti seriosa e un po’ didattica del genio saviniano.