Frédérick-Gravel-Usually-Beauty-Fails-kleinSILVIA TORANI | Più di due secoli di storia dell’arte sembravano aver smantellato per sempre ogni retaggio di canone estetico. Il brutto, il grottesco, il cattivo gusto sono entrati nelle gallerie e nei musei. Se un orinatoio può essere capovolto e trasformato in fontana, tutto è ugualmente degno di essere rappresentato, tutto può accedere alla condizione artistica ed essere considerato bello. La danza ha solo tardato ad adeguarsi. Come arte preminentemente corporea sembrava opporre una resistenza maggiore all’estetica del brutto: per tradizione classica il corpo umano restava infatti l’esempio più alto di perfezione e bellezza.

Ma l’arte non ci ha liberato dal peso dei modelli: la bellezza in quanto categoria estetica è sopravvissuta. Non l’hanno uccisa Duchamp, Picasso, Schiele e Dalì. Ma non ci sono riusciti nemmeno David Bowie e Lady Gaga. La prima parola che ci viene in mente per definire qualcosa che ci ha colpito è ancora “bello”. Semplicemente, questo grande contenitore semantico si è allargato a contenere nuovi spazi.

Frédérick Gravel sembra ricordarci che siamo ancora lontani dall’aver liquidato il Bello. Il coreografo canadese approda in Italia presentando al Romaeuropa Festival il suo Usually Beauty Fails, uno spettacolo che mette in scena la difficoltà del contatto in un mondo di simulacri e ingombranti canoni normativi. Il movimento si frantuma, si riavvolge come in una danza a marcia indietro. Il corpo perde la propria spontaneità: una volta gettato in pasto al pubblico non sa bene come comportarsi, se non recuperando gesti appresi, copiati e stratificati. L’esibizione è fisica, carnale. Il danzatore dimostra vulnerabilità e imbarazzo esponendo la propria pelle.

Si tratta di una riflessione sul lavoro sotterraneo del corpo che ha molto in comune con Dolce vita di Virgilio Sieni. Anche qui il palco è spoglio e la scenografia assente; anche qui il cambio d’abito e tutto ciò che dovrebbe avvenire dietro le quinte resta invece sulla scena; ma lo spazio della bottega fiorentina cede il passo a quello del concerto rock, costruito da potenti fari che ritagliano sagome in controluce.

Gli episodi di uno spettacolo fortemente bipartito sono scanditi dagli interventi ironici di Gravel, che si impossessa del microfono come il leader di una band per accompagnare gli spettatori nel mondo segreto del backstage. La musica è prodotta dal vivo con chitarre, strumenti elettronici e perfino un’armonica a bocca à la Bob Dylan. L’estetica è cinematografica, postmoderna e pop: soprattutto nella prima parte si ha l’impressione di assistere a un film in cui sfide coreografiche si alternano a momenti di patinata poesia adolescenziale, mentre il nucleo tematico fondamentale si presenta con chiarezza a tratti ridondante soprattutto nella scena del party che domina la seconda parte.

Una festa smette di essere occasione di incontro sociale per diventare emblema dalla mancanza assoluta di spontaneità. La danza a due sembra cominciare naturalmente, ma i corpi iniziano a farsi distanti, a interrogarsi sul proprio movimento, a farsi sempre più artificiali e retorici. L’ansia di conformazione a un modello emerge dai dedali dell’inconscio e ci controlla. E la danza si mostra per quello che è sempre stata; la bellezza si mostra finalmente per quello che è: un codice culturalmente condiviso.

La bellezza è ancora ovunque: affolla le riviste, le vetrine e gli schermi. Pervade le nostre menti e i nostri discorsi, cattura i nostri sguardi, ossessiona i nostri specchi. La bellezza fa vendere, fa andare a teatro o al cinema. La bellezza proclama chi vince e chi perde. Eppure “la bellezza di solito fallisce”. Fallisce nella sua stessa definizione, perché nessun giudizio estetico è assolutamente libero. E perciò non può che rimanere tale.

 

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