VINCENZO SARDELLI | “A Milano la mafia non esiste. Ci sono altri problemi, neri, albanesi, zingari. La mafia no, è roba del Sud. Cosa loro”.
I pareri rilevati alla rinfusa tra la gente del quartiere Isola denunciano l’inconsapevolezza, secondo l’associazione Libera, di quasi il 60 percento dei milanesi.
A Cinisi il 9 maggio di ogni anno, anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato, gli organizzatori del Forum Sociale Antimafia espongono lo striscione storico di Radio Aut, da cui Peppino denunciava le malefatte del boss Badalamenti. C’è scritto: «La mafia uccide, il silenzio anche».
Ma qual è il silenzio peggiore? Quello dei disonesti o quello degli onesti?
I dati smentiscono gli stereotipi. A Milano negli ultimi anni sono stati inflitti più ergastoli che a Palermo. Solo tra il 1989 e il 1994 ci sono stati 3mila anni di condanne per reati di mafia. Un anno fa, proprio a Milano, si celebravano i funerali di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa dal compagno Carlo appartenente al clan dei Cosco. Abitava nella centralissima via Montello. Sotto la Madonnina la mafia dilaga.
Ecco perché è doveroso parlare di Zia Severina è in piedi, monologo teatrale con Valentina Scuderi che la compagnia Baby-gang ha messo in scena al Teatro Sala Fontana.
Meritevole l’impegno della spagnola Carolina De La Calle Casanova, autrice e regista della pièce. Zia Severina è parte di una trilogia che comprende lo spettacolo Quinta mafia e il monologo La bestia dentro, oltre a percorsi di formazione scolastica. Spettacoli proposti con coraggio nelle vie e nei cortili dove la mafia agisce. Come Niguarda, dove Zia Severina ha vissuto una vita intera.
Zia Severina, vedova, anziana, donna sola, è stata capace di denunciare il racket delle case popolari sfidando le cosche. Qui la vediamo in una scena claustrofobica curata da Petra Trombini. Trapela, invisibile e inquietante, la presenza di Mongolfiera, giovane recluta della ‘ndrangheta infiltrata nella minuscola casa popolare della donna per intimidirla e indurla a svignarsela.
Zia Severina, raccontata da Giuseppe Catozzella nel romanzo Alveare, è quel tipo di nonna che tanti hanno in mente. Poltrona con plaid, tavolino con vaso di fiori, lumino e foto del marito defunto. Uncinetto e gomitolo di lana. Borse della spesa e televisore. Cuffie sulla testa, grembiule e pantofole. Una bottiglia di sambuca a portata di bocca. E un telefono, foriero di cattivi presagi.
Ciò che caratterizza le regie di Carolina De La Calle (qui supportata da Chiara Boscaro) è lo studio sul personaggio, la centralità dell’attore. Valentina Scuderi anima una donna del popolo dalla psicologia semplice, dai gesti rituali, con un accento settentrionale impastato che strascina le consonanti. Se Leonardo da Vinci affermava che di una figura ritratta il pittore deve dimostrare ciò che ha nell’animo, qui, anche senza parole, basterebbe il volto a evocare una coscienza: occhi lucidi dentro le occhiaie, fronte rugosa madida di sudore, guance pallide. Quel guardarsi circospetto tra tensione e paura. La solitudine e la rabbia. La forza d’opporsi, trovata chissà dove.
La voce stridula mischia dialoghi e imprecazioni, silenzi e bestemmie soffocate sotto il segno della croce. Il rimpianto del passato, i ricordi, sono quelli di una persona avviata al tramonto. Qui il crepuscolo è affrettato dal ricatto.
Zia Severina non si arrese, faceva le barricate. Carolina De La Calle la libera facendone affiorare l’identità. Con buona maieutica registica, poche luci dosate, musiche sospese, ottimizza l’abilità interpretativa della Scuderi.