fortezzaVINCENZO SARDELLI | Non sorprende che il francese Jean Genet (1910-86), con la sua arte legata all’allontanamento dal reale e dalla storia, sia un riferimento per gli attori-galeotti della Compagnia della Fortezza di Volterra. Adolescente e giovane irregolare, Genet crebbe in casa di correzione. Più volte incarcerato, visse di espedienti.

Una serie di suoi libri rispecchia le sue narrazioni biografiche: opere incentrate sullo sgomento e sull’irrisione della struttura sociale, sentita come feroce e inafferrabile.

Si spiega così Santo Genet, il titolo che Armando Punzo, mente e anima della compagnia del carcere di Volterra, ha scelto per il suo ultimo spettacolo. Uno show sull’opera omnia del drammaturgo transalpino. Che trasforma la lacerazione in sangue vitale. Che crea buchi nella realtà. E immagina «collane di fiori dove c’erano catene, bellezza dove c’era orrore».

Dopo Mercuzio non vuole morire, ecco in prima nazionale al Menotti di Milano, un altro trionfo barocco del potere liberatorio dell’arte.

Santo Genet evoca un tempo fuori dal tempo. Sfilata carnascialesca o sacra rappresentazione, unisce trascendente e profano.

Già scendere dal foyer verso il teatro è straniante per lo spettatore: un uomo-geisha lo accoglie ammiccante; marinai in posa statuaria gli fanno da cornice.

Poi la sala, il palco come una nave o un cimitero. Marmi bianchi, colonne, tombe, candelabri. Specchi dorati, velluti, pizzi. Un organo che suona.

Una sposa immateriale, abito bianco e velo luttuoso, vaga solipsistica tra angeli efebici e monaci orientali. C’è lui, Punzo, abito nero lungo, collana di rose rosse: ridanciano, enigmatico, sciorina versi come cantilene, parole come proclami. Altri personaggi si materializzano in questo carosello: sono morti, pirati, prostitute, figure ibride indefinibili.

Nenie funebri e chiari di luna fanno da sfondo a note di pianoforte, violino, chitarra. Suoni corposi, incalzanti, avvolgenti, a tratti regrediscono e sublimano.

Atmosfere fumose, rarefatte, si addensano in una sinestesia di voci e colori, in un monumentale bazar delle meraviglie. La luce estesa, chiara o policroma, si proietta sul pubblico coinvolto in una processione collettiva tra valzer e piogge di fiori.

Siamo colti da una specie di sindrome di Stendhal. Anneghiamo in un vortice perturbante. Nel comune respiro visionario scopriamo il nostro personale immaginario. È la celebrazione pomposa di una morte che, più della vita, assomiglia al teatro, luogo dove tutto è possibile.

La dualità dei sentimenti appartiene alla realtà del carcere come la contiguità tra colpa e redenzione, sbarre e libertà. La scena è riflesso di un mondo interiore frantumato. Manca ogni meccanismo causale. Punzo si affida a una serie d’immagini di frammenti atemporali e atopici.

Santo Genet sfuma la protesta e la provocazione sociale in immagini oniriche. Si potrebbe rilevare un certo dilettantismo. Come sempre accade nel caso degli artisti iconoclasti, l’opera di Punzo resta avvolta da una fondamentale ambiguità: un doppio registro che glorifica congiuntamente, con maliziosa dialettica, una primitiva ingenuità e un ragionatissimo mimetismo da guitto.

Colpisce il rapporto di Punzo con i maestri antichi e recenti dell’eversione, lungo una linea che da Sade si spinge sino ad Artaud, oltre allo stesso Genet. Astuzia e innocenza sono le due leve simultanee di un’opera la cui denuncia sociale è autotrascesa sino alla pura felicità verbale e alla fanciullesca libertà dell’immaginazione.

2 COMMENTS

  1. C’era, c’era. C’era di tutto. Troppo? Forse. È la loro cifra. Voglia di libertà. Di strafare. Di uscire dalla gabbia della repressione? Forse. Forse. Sono fatti così. Prendere o lasciare.

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