MATTEO BRIGHENTI | L’attore è un’eco del buio. È l’ombra di un personaggio che lo spettatore tiene in vita di un niente, anche se è uno, anche se è solo una donna di campagna con la sporta. E di un niente, infatti, rimangono accese le luci sopra i tavolini imbanditi con acqua, vino e acini d’uva nei sotterranei dell’ex istituto Magnolfi di Prato. Rischiarano quanti (tanti) danno corpo all’ascolto della Recita dell’Attore Vecchiatto nel Teatro di Rio Saliceto, alla dolce barricata di parole contro le tenebre di Attilio e sua moglie Carlotta, letti e interpretati con talento di felice leggerezza da Claudio Morganti ed Elena Bucci, tra muri scrostati, anneriti da troppe notti senza stelle, passate e non ancora finite.
In prima nazionale a Contemporanea Festival di Prato, il nuovo lavoro di Morganti sul senso del fare coppia con il teatro, sul mestiere di attore e quello di marito e moglie, sul genio, l’insuccesso, la dignità dell’ “uscire di scena”, prende sguardi e respiro da un racconto di Gianni Celati. Attilio Vecchiatto (1910-1993) è stato un attore italiano di fama internazionale, ammirato da protagonisti assoluti come Laurence Olivier o Jeanne Moreau. I suoi adattamenti shakespeariani ottennero successi e gloria in tutto il mondo, eccetto che in Italia. A 78 anni, insieme alla moglie Carlotta, conosciuta quasi mezzo secolo prima a Buenos Aires durante la tournée di un Romeo e Giulietta, riuscì a essere scritturato solo nel piccolo teatro di Rio Saliceto, in provincia di Reggio Emilia.
I pensionati hanno una posizione assegnata dallo Stato, la pensione appunto, a misura della loro condizione fisica e mentale. E la vecchiaia dell’attore? Qual è il suo Stato? Per la Recita dell’Attore Vecchiatto si direbbe la resistenza delle parole. Tutto è freddo, è gelo, la fine fatta a Rio Saliceto coincide con le cantine degli inizi di cui parlava trent’anni fa anche Eduardo De Filippo, a Taormina, sul palco del suo addio (al) pubblico, l’Italia è il Paese della vergogna umana e i giornalisti sono “frasari del disgusto” (Vecchiatto ce l’ha in particolare con il “Corriere della Sera”), ma gli attori riescono ancora a dire parole di verità, rara più dell’araba fenice. A patto, però, che qualcuno li stia a sentire.
Claudio Morganti dà ad Attilio Vecchiatto la forza irrequieta di un profluvio di coscienza, la Carlotta di Elena Bucci è un argine alla piena del marito, il ritornello che sottolinea il suo mondo di strofe che non vanno mai a capo: lui è scatenato contro il tempo che ancora gli rimane, lei è fiera della loro biografia, che è strada insieme. Morganti e Bucci leggono e ti muovono paesaggi nella testa, senza, all’apparenza, voltare pagina sul leggio, come se quei fogli servissero solo a ricordare che c’è stato un tempo in cui Attilio e Carlotta sono esistiti e quel tempo è per sempre lì.
“Ci guardano come matti, non capiscono la vecchiaia”. “Ci guardano come degli spaventapasseri”. Il dramma della Recita dell’Attore Vecchiatto è che il pubblico è necessario all’attore come il bianco della carta al nero dell’inchiostro, ma al tempo stesso non lo può comprendere, non può capire come si sente, cosa prova davvero. Se gli spettatori non ascoltano bisogna impazzire al più presto e la pazzia della scena si chiama personaggi, costretti a fingere, a recitare per vivere. I due allora tornano dove sono venuti, nel buio, scompaiono per cercare un altrove, un’altra parte in cui farsi riconoscere, e si portano dietro solo i loro nomi: Attilio, Carlotta. Claudio Morganti ed Elena Bucci li accompagnano mano nella mano, con la dolcezza di un soffio che spegne una candela. La vita vera comincia fuori di scena.