almaVINCENZO SARDELLI | Ci sono spettacoli che più passa il tempo, più diventano attuali. È il caso di Gente come uno (C’era una volta un paese ricco e ora non c’è più) sferzante monologo di oltre dieci anni fa che la compagnia argentina Alma Rosé ha riproposto al Teatro di Ringhiera di Milano.

Che questo spettacolo sia così al passo con i tempi, fino quasi a precederli, in fondo non è una bella cosa dal punto di vista dello spettatore italiano. Manuel Ferreira ed Elena Lolli ritraggono un paese affondato da una crisi dilagante: inflazione, corruzione, crescita del debito pubblico, incapacità da parte del governo di ripagarlo. Gente come uno evoca il default argentino del 2001, ma tocca situazioni e sentimenti assimilabili all’Italia di fine 2014. Il ritratto argentino diventa paradigmatico di una recessione a più ampio raggio, stabilendo un filo rosso tra situazioni distanti nel tempo e geograficamente agli antipodi.

Evasione fiscale, riciclaggio di denaro, evaporazione di capitali dirottati verso paradisi fiscali; riduzione delle esportazioni, disoccupazione, diminuzione del Pil: una voragine inghiotte paesi e cittadini. Lo spunto di questo spettacolo nasce dall’interesse e dall’inquietudine verso i sistemi che regolano la finanza. Sistemi che investono drammaticamente la quotidianità di tutti.

Gente come uno è la testimonianza di un argentino che parte dall’Italia, torna a Buenos Aires e non riconosce il paese che aveva lasciato. Dove sono finiti gli shopping-center gremiti, i negozi pieni di ogni ricchezza made in Usa, Europa, Giappone? Che cosa resta di vacanze all’estero, case di lusso, automobili all’ultimo grido? Gente come uno è il ritratto di un paese alla deriva: sanità in disfacimento, pensionati dimenticati dallo stato, salari bassi, bambini ridotti alla fame fino a morirne. La vicenda argentina è significativa di un modo di fare economia nell’era del capitalismo. Stigmatizza condotte imprenditoriali e finanziarie spregiudicate e sprezzanti di ogni regola.

Ma quello che vediamo in scena non è solo il «caso» argentino. È anche una «lezione» di teatro all’argentina. Nel senso che, rispetto ai meccanismi di spettacolarizzazione tradizionalmente messi in atto nel teatro europeo o anglosassone, rispetto a una drammaturgia tutta effetti e colpi di scena, Manuel Ferreira ed Elena Lolli scelgono una strada antitetica, più controllata. Quasi sommessa. Una strada all’argentina? Forse la denominazione geografica è un po’ forzata perché si tratta per prima cosa di una scelta di stile. Ma l’aggettivo può aiutare a capire le differenze di base.

Del default qui si raccontano non tanto le conseguenze eclatanti, ma piuttosto i prodromi, le origini. Il passaggio alla crisi non è dato dal rovistare in situazioni di miseria e degrado, in dettagli sconcertanti o ripugnanti. È affidato piuttosto alle atmosfere. A una pelliccia lisa su una sedia dozzinale. A una bottiglia di plastica spremuta, dimenticata sul fondo del palco. Alle luci (curate da Andrea Violato) che non trovano mai uno squarcio risoluto nella penombra diffusa. Alle note malinconiche, di tango, di sax, che a momenti cedono il passo a frammenti sospesi dell’inno nazionale albiceleste: ignoriamo se preludano al riscatto o all’esasperarsi dello stallo.

A dar forza a una rappresentazione che non è mai narrazione impersonale, è la prova molto fisica di Manuel Ferreira. La sua gestualità plateale esprime i trambusti dell’anima. A momenti sembra un direttore d’orchestra. I suoi movimenti sulla scena sono piroette, giravolte, mulinelli struggenti, coreografie di volantini di carta come piogge di foglie autunnali. Si alternano affanni e pause, urla di rabbia e toni affievoliti.

L’uso cadenzato del microfono crea momenti surreali. Il battito di pentole e padelle, memoria delle manifestazioni di piazza contro il governo, sottolinea qualche tensione emotiva, che non disperde mai una leggerezza e una nota ironica di fondo.

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