RENZO FRANCABANDERA | Tre uomini a zonzo, per tacer dell’alieno. In fuga? Forse. O prigionieri di una surreale sit com fatta di piccole scene in sequenza. Sul fondo un telo di plastica leggera che si muove al soffio di qualche ventilatore, luci al neon verdi, tagli ectoplasmatici e diagonali sceniche a gogo, ma tutti pronti ad indossare la maschera antigas e ad entrare in un rifugio antiatomico. Giochi e oggetti di un postmoderno da b-movie.
Marco Cacciola, Michelangelo Dalisi e Francesco Villano scrivono un leggero divertissement che ha la pretesa prima di tutto di divertire loro mentre lo pensano, e poi di coinvolgere il pubblico in un viaggio surreale, fra situazioni grottesche e fuori dall’ordinario. La produzione è di In Balìa, collettivo di artisti particolarmente attivo in questi ultimi anni, con produzioni orientate alla nuova drammaturgia. Fra fermo-immagine, sequenze e sketches, richiami ironici a paure collettive, attese salvifiche che fanno riecheggiare il teatro dell’assurdo e la scrittura televisiva delle serie sull’oltremondo, il testo vuole irridere, spingendo il pubblico verso la frontiera del riso ma anche della riflessione su quello che cerchiamo quando nulla ci resta se non l’incognito.
Il progetto, vincitore del Premio per le arti L. A. Petroni 2013, Brescia e del bando Trasparenze 2013, Modena, ha alcuni pregi: innanzitutto è una drammaturgia con un allestimento originale, che non assomiglia a nulla in circolazione.
Anche il recitato ha alcuni elementi di interesse, cercando una terza via al rapporto con il pubblico, che è spettatore ma potenzialmente anche abitante di questo universo parallelo che potrebbe essere un extra mondo stile Lost impazzito o il garage del vicino di casa dove tre scavezzacollo se la stanno spassando a organizzare un allestimentino agile ma con qualche (finanche giusta) pretesa.
E qui, diciamo, c’è anche quanto ancora manca. Su questo, il parametro di riferimento di chi scrive è Philippe Quesne e le sue creazioni con il Vivarium Studio come il “Big Bang” visto ad Avignone 2010 o anche i successivi lavori girati anche in Italia. Nel 2010 in particolare ricordo che uscii dalla sala con metà pubblico in delirio e l’altra metà che fischiava. Ma per il semplice motivo che Quesne aveva operato una scelta radicale sul nonsense che qui in A zonzo in fondo in fondo ancora manca. Aveva rinunciato a un bel po’ di testo (mentre il progetto di In Balìa resta troppo legato al verbo) e si era avventurato nell’inesplorato terreno dell’illogico, di quello che non ci appare e che per essere pensato necessita di uno slancio che vada oltre gli schemi di riferimento che abbiamo (e su cui A zonzo a volte un po’ s’appoggicchia): il televisivo, l’umorismo del teatro surreale già visto, il CSI della quinta dimensione con la quarta parete.
Cosa vogliamo dire: questo tentativo ha un pregio, individua una strada nuova ma per certi versi ancora ragiona con i mezzi e l’armamentario artistico della strada vecchia. Infatti Cacciola, Dalisi e Villano recitano e approcciano il drammaturgico con un’idea che ha un po’ paura di guardare l’irrisolto come la vera soluzione dell’equazione.
Preferiscono piuttosto tornare, anche nel finale, a giocarsela sul sicuro. Forse fanno bene, chissà.
Ma sarei andato fino in fondo, oltre gli X files di più prossima suggestione televisiva e anche dei godot teatrali (con la minuscola, nome comune di drammaturgia con assenze), tanto li ha già inventati qualcun altro.
Mi sarei spinto in quel mondo di irrisolti e vuoti che forse più interrogativi e più profondità avrebbero lasciato al pubblico, come quelle strisce di Gipi in cui il personaggio sparisce nel nulla del foglio bianco. E la fantasia divertita e l’angoscia del lettore che devono immaginare davvero il resto. Lì si che rido e un po’ mi spavento per davvero.