VINCENZO SARDELLI | A vedere La Diva al Teatro Sala Fontana di Milano, regia di Laura Sicignano, con Elisabetta Pozzi e Sara Cianfriglia, lo spettatore si sente proiettato in un’epoca remota. Non tanto perché la drammaturgia è tratta da La Diva Julia, romanzo degli anni Trenta di William Somerset Maugham. Quanto perché l’era delle dive a teatro, quelle che il proprio personaggio patinato se lo ritrovavano addosso anche in camera da letto, sembra ormai tramontata.
La Diva è una figura da cinema in bianco e nero. Mediamente bella e intelligente, naviga a vista nell’oceano della banalità sociale. Né Marilyn né Callas, qui è una via di mezzo tra Duse e Paola Borboni, con gradazioni rétro alla Valentina Cortese.
L’ambientazione scelta da Laura Sicignano è un interno di camerino decadente e imbalsamato. Un grammofono e a un attaccapanni esasperano le atmosfere d’antan. Un telefono squilla accanto alla teiera. La scena (di Laura Benzi con Francesca Mazzarello) è un trionfo di fiori che fanno da cornice a uno specchio. Ne percepiamo l’odore stantio, come quello del borotalco o dell’acqua di colonia.
Mimetizzata su una vecchia ottomana, confusa nella tappezzeria, la 46enne Julia Lambert, attrice di successo al giro di boa, tergiversa con la cameriera poco prima di uscire sul palco per recitare la Fedra di Racine. Defilata in una specie di limbo, Julia è proiettata verso i ricordi di un passato incartapecorito: amori, successi, tradimenti, rimpianti, invidie.
Il camerino è uno spazio mentale. Gli spettatori sono dei voyeur nell’attesa che qualcosa accada.
C’è un’atmosfera polverosa. La narrazione è un susseguirsi d’immagini ingiallite come le foto disseminate sul pavimento. Impazzano i personaggi interpretati dalla protagonista. Mille ruoli e gesti: smorfie, lacrime e sorrisi. Siamo in bilico tra verità e finzione, in un incessante gioco di specchi.
«Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero», diceva Oscar Wilde. La Diva riflette le nostre molteplici facce confuse. Attraverso di lei ci protendiamo alla ricerca vana di un nostro lato autentico. In fondo, «siamo molto più bravi a mentire a noi stessi che agli altri».
Julia non esiste: è solo gli innumerevoli personaggi che ha interpretato. È una figura vincente, nonostante le disavventure, per la sua inconsapevolezza, che la aiuta a mascherare, fin quasi a oscurarla, ogni traccia d’autentica personalità.
Brava Elisabetta Pozzi a dare spessore a questo personaggio dall’identità frammentata. La vediamo languida, sciantosa, supplice; iraconda, lacrimosa istrionica, fragile, ironica, determinata. Alterna solitudine e deliquio, furore e tristezza. La Pozzi dà voce a un testo logorroico, schizofrenico, che cristallizza i luoghi comuni sui luccichii ambigui del mondo dello spettacolo, su personaggi afflitti da narcisismo e apatia.
Sara Cianfriglia, la cameriera, fa da sparring partner in una dialettica di ruoli che rende la correlazione tra vita e spettacolo, realtà e finzione. Muta e servizievole, sembra a tratti il deus ex machina della vicenda. È un manico di scopa che trasmette concretezza. È un burattino, ma muove i fili.
Le luci di Tiziano Scali, le note di Matteo Spanò e Giacomo Gianetta, i costumi di Maria Grazia Bisio, fissano ruoli e ricordi, rafforzano l’atmosfera surreale.
Incomunicabilità e solitudine s’intrecciano sullo sfondo di un tipico umorismo cinico, dove finzione e realtà si compenetrano in modo istintivo, senza bisogno di scomodare Pirandello e il suo cerebralismo.
La riduzione drammaturgica di Laura Sicignano trasforma una storia in divenire in un flashback statico, con ridondanze generalmente non stucchevoli. La regia della stessa Sicignano (con la collaborazione di Marta Caldon) si sforza di calibrare toni briosi e malinconici. La scena finale, passeggiata cimiteriale con cornice di fiori appassiti, è un’uscita di scena forse scontata, ma suggella una vicenda della quale percepiamo, dall’avvio, un senso di dissolvenza.