RENZO FRANCABANDERA | E’ come quando entri in gelateria e trovi un gusto assurdo, tipo pasta al forno o ketchup. Primo pensiero: “E’ impossibile che sia buono!”
E spesso è vero. C’è poi quella volta che…
Tipo che siedi in sala, la scena racconta di evenienze ectoplasmatiche, con drappi di plastica trasparente che come fantasmi penzolano nel buio dello sfondo illuminati da luci fredde, e qualche abat jour in discreto numero, potremmo dire, che diffonde una luce invece calda per contrapposizione (disegno luci Fulvio Melli). Un soffocante e al contempo vuoto ambiente dalla suggestione goticheggiante e dall’arredamento anni Sessanta.
In scena un Pirandello della maturità, quello onirico e psicanalitico. Raro da vedere a teatro, comunque.
Quando dunque la voce off (Marco Balbi) inizia a pronunciare le abbondantissime didascalie, di cui come noto questo testo quasi anti teatrale e pittorico di Pirandello è farcito, e sullo sfondo, invece di lei, appare una combattente stile Black Mamba in Kill Bill, l’effetto gelato gusto pasta al forno si fa concreto.
Ma questa volta, non saprei neanche dire io come, Antonio Syxty, attraverso un viaggio nel cinema del secondo Novecento, fra Linch, Kubrick, Tarantino, ma ancora Fellini e tanti altri, in pensieri, parole, musica, opere ed omissioni, riesce a restituire del testo un sapore appropriato, affidato alle interpretazioni giuste di Caterina Bajetta e Gaetano Callegaro, lei sensuale e rampicante, lui âgée e decadente.
Lei che fra sogno e realtà vuole sfuggire al vecchio amante per rincorrerne uno ancora più remoto ma esotico, tornato da anni fuori città. Lui che teme lei gli sfugga. In ballo un possibile strangolamento, una collana di perle, un doppio sogno, che come tutti i sogni lucidi non si sa quando inizia e quando finisce. Ballano mascherati, in frac lui, in abito rosso da sera lei. Come la Kidman e Cruise in Eyes Wide Shut.
Come noto, la trama del film di Kubrick traspone quella di Doppio Sogno di Schnitzler, da cui è tratto, dalla Vienna di inizio Novecento alla New York anni Novanta. Il protagonista, il medico Fridolin diventa Bill Harford e la moglie Albertine è Alice. Spinto dalla suggestione, la stessa che forse ha ispirato Pirandello sul testo di pochi anni precedente di Schnitzler, Syxty fa lo stesso gioco con il remake di Kubrick. E, visto che nel film di Kubrick, lui diventa Bill e nella trama di Pirandello lei vuole liberarsi di lui, ecco che, alla fine, una chiave per arrivare alla Beatrix Kiddo di Kill Bill, facendo qualche passaggio non proprio immediato, si arriva perfino a trovare.
Magari è solo una nostra pippa (ma forse no).
La scenografia di Guido Buganza e i costumi Valentina Poggi (alcuni cambi costume davvero magici per velocità ed efficacia), ma soprattutto i movimenti di scena Lara Vai, assecondano in maniera interessante l’idea di Syxty di rileggere il testo attraverso le suggestioni del cinema, perché aggiungono quel tratto morboso e decadente difficilissimo da far rivivere e che invece, pur passando per il teorema della pasta al forno, finisce per avvincere lo spettatore nell’ora di recita.
Dopo dieci minuti di spettacolo sarei voluto scappare, dopo altri dieci minuti non riuscivo a non seguire. Per me un’operazione riuscita, che trasuda morbosità, ironia e giuste contrapposizioni, una drammaturgia difficile con un allestimento capace di dargli vita. La regia di Antonio Syxty fa centro. E trova un gusto ardito. Ma concreto; con una sua autonomia di sapore, abile a restituire giusta modernità a Pirandello. E soprattutto il pregio, come nel testo di Pirandello, e Schnitzler, e Kubrick, di finire senza terminare. Cosa rara per uno spettacolo teatrale.