RENZO FRANCABANDERA | Marius von Mayenburg (Monaco di Baviera, 1972) è drammaturgo di grande talento che nella Germania del postdrammatico finisce per sembrare finanche old fashion con il suo interesse tutto centrato sulla trama e i personaggi, ma queste caratteristiche così poco in linea con l’universo teatrale teutonico contemporaneo, ne fanno l’autore tedesco più rappresentato nei paesi di lingua inglese, oltre che il drammaturgo in residenza presso la Schaubühne am Lehniner Platz in Berlin di Berlino, uno dei templi del teatro contemporaneo, dove lavora con Ostermeier alla direzione artistica.
Parliamo dunque di “Der Häßliche”, “Brutto”, un testo del 2007 scelto da Bruno Fornasari, regista residente presso il Teatro Filodrammatici di Milano, per un allestimento felice, che ha debuttato l’anno scorso e ripreso quest’anno con successo.
E parliamo delle tre ragioni per cui questo allestimento funziona.
Il primo, banale ma essenziale è proprio il testo, che è un incastro narrativo efficace, che guarda alla tradizione ma sa ammantarla di attualità, che parte quasi come commedia degli equivoci, ma diventa poi amara riflessione sul contemporaneo. Ad un uomo brutto vengono cambiati i connotati. Questo originerà una serie di occorrenze, dalla fulminea ascesa sul posto di lavoro, al ritrovato desiderio della donna amata. Ma la fulminea ascesa sarà anche l’inizio del baratro, quando il suo successo viene minato alle basi dalla stessa tecnica che lo ha generato. Quanto la tecnologia ci rende replicabili? Quanto ci rende replicanti? Rischiamo un futuro privo di identità, sia individuale che collettiva? Una storiella divertente capace poi di prendere una piega davvero inquietante e non comune.
Il secondo è nelle scelte registiche di Fornasari, che si conferma capace di leggere con intuito non solo lo spazio scenico ma l’intersezione creata da testo, attori e scelte registiche, continuando a lavorare con un gruppo di interpreti con cui affronta un certo tipo di contemporaneità drammaturgica, legata ad una meccanica del testo che sa avvincere, ma porta sempre oltre il già noto, il già battuto. E questo è un merito, se confrontato con teatri che si affannano ad amletare stagioni teatrali, infarcite di divi tv in libera uscita e classici di vulgata, pur di portare a teatro la ggente. Qui la compagine di attori, pur con qualche sbavatura e imperfezione, si mostra all’altezza senza dover ricorrere al alchimie da tubo catodico, e questo perché il testo e le scelte di regia permettono al tutto di svolgersi senza orpelli, lasciando proprio al recitato il compito di dialogare con lo spettatore. Cosa che avviene.
La terza e ultima è una riflessione che parte da quello che l’autore della drammaturgia diceva a proposito della stesura: “Una delle cose con cui ho voluto giocare è quel trucco, quella magia del teatro dove uno dice “Questo è il re” e l’attore sul palco diventa il re. Se uno dice “Adesso quello non è più il re”, allora quello non è più il re. Nella nostra versione avevamo scelto per Lette (il protagonista) un attore molto bello e ha funzionato. La gente credeva davvero che fosse orrendo.”
Fornasari di fatto usa la stessa tecnica, completamente antinaturalistica, spingendo gli interpreti al bordo del cabaret, ma compiendo interessanti percorsi di anti-teatro, facendo in modo che al cambio di volti, di identità e di ruolo, i personaggi non mutino il loro sembiante, come la didascalia avrebbe voluto. Sono e restano se stessi, diversi, ma tragicamente uguali, come il nostro tempo ci spinge ad essere. Quindi l’uguaglianza, sembra suggerire il regista, non è nell’uguaglianza orwelliana e da incubo di inizio Novecento di volti uguali usciti da una infernale macchina plasma-uomini, ma nella riduzione della nostra identità a pochi tratti, replicabili in forma meccanica, dopo l’appiattimento delle personalità. Che è una morte un po’ peggiore.