FRANCESCA GIULIANI | Le tracce di una memoria, le sue visioni e i suoi fantasmi, compongono la scena di Paysage Inconnu, il nuovo lavoro che il coreografo e performer serbo, trapiantato in Francia, Josef Nadj, ha messo in scena sul palcoscenico dell’Hungarian Theater di Cluj, durante Interférences International Theater Festival. I due musicisti, Akosh Szelevényi e Gildas Etevenard, creano un paesaggio sonoro che attraversando diverse culture musicali, dal jazz ai ritmi africani, dà vita a uno spazio dove i confini tra un continente e l’altro, tra Oriente e Occidente, tra uno spazio reale e uno spazio immaginario, non esistono più.
Due performer in nero, Josef Nadj e Ivan Fatjo, volto celato, entrano sulla scena e, appollaiati su due sedie di ferro, si fanno indistinguibili. Il ritmo si fa intenso, i tamburi e la batteria risuonano creando uno spazio che si espande dalla vivacità comica, quasi circense, all’intensità rituale.
In questa danza, a tratti macabra, le due figure, ora corvi in combattimento, ora anatre che si rincorrono tracciando passi di chapliniana memoria, ora vecchi amici che bevono per creare pitture a gesso su una lavagna alle loro spalle, ora arlecchino e pulcinella che litigano fino alla morte, creano attraverso la viva gestualità extra-quotidiana del loro corpo un immaginario dove il reale si trasfigura nell’immaginario. Se l’ispirazione di Nadj per la coreografia è partita dal ricordo dei luoghi dell’infanzia, il piccolo villaggio di Kanjiza, in Vojvodina, una provincia della Repubblica di Serbia e del Montenegro, ai confini con l’Ungheria e la Romania, qui ciò che si mostra è questo e non solo.
La sua storia, la sua formazione, le sue visioni, i paesaggi altri sono messi in scena. C’è l’insegnamento di Etienne Decroux visibile su quei corpi, c’è l’immaginario beckettiano che li accompagna, c’è la gestualità della commedia dell’arte e ci sono i passi di Charlie Chaplin a dargli un ricordo. Poi ci sono gli oggetti a spezzare il quadro, a riportarlo in quel villaggio. Un albero tronco in mezzo al palco, una vecchia vasca da bagno scolorita e un’accetta dilatano lo spazio e si fanno quasi prolungamento dei corpi dei performer. E c’è la musica, il più delle volte discorde al movimento ma che lo accresce, dandogli forza. I performer, vere e proprie marionette di questo “teatro dell’immagine”, danno forma attraverso i loro corpi, assenti nel volto ma ricchi di segni ben riconoscibili su ogni gesto anche minimo delle dita di una mano, a quella storia del corpo che il direttore del festival rumeno, Gàbor Tompa, ha voluto tracciare come filo conduttore di questa quarta edizione del festival.
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