MATTEO BRIGHENTI | Per un mese, da fine settembre a fine ottobre, nel piccolo mondo contemporaneo non si è parlato quasi d’altro che dell’Alcesti di Euripide riletta da Massimiliano Civica nel Semiottagono dell’ex carcere delle Murate, a Firenze. Un debutto assoluto, accessibile solo a venti spettatori a sera, e unico perché lo spettacolo non andrà in tournée. Il progetto, vivendo di dettagli, è stato passato al setaccio dalla critica, ottenendo consensi unanimi (per PAC ne ha scritto Renzo Francabandera).
Eppure quella storia di una donna simbolo del sacrificio in nome dell’amore, e, per traslazione, del Teatro come “qui e ora” contro il “dappertutto e comunque” dei Social Network, a me è parsa da subito un enigma da sciogliere dentro una menzogna da smascherare. “Alcesti è stato un tentativo – mi dice Civica – io sono contento di questa operazione, forse è l’unica volta in cui non ho rimpianti. Poi, è vero, lo spettacolo è piaciuto anche perché “doveva piacere”, ma è per via dei tanti rumori di fondo che, nel bene e nel male, una scelta forte come la nostra si porta dietro.”
Dopo aver fatto a cazzotti per settimane con lo spettacolo per scriverne una stroncatura, ho capito che l’unico modo per non ascoltare quei “rumori di fondo” e restare lucido era confrontarmi con Civica e avere nelle orecchie solo il suo pensiero. Così ho preso il telefono e ho composto il numero di un paesino in provincia di Rieti. Ne è nata una discussione che, partendo da Alcesti, ha preso il largo verso l’analisi delle possibilità stesse del (suo) teatro.
Di primo acchito pareva di assistere a un rito filologico e invece lo spettacolo era una tua ricostruzione della tragedia greca, quasi il ricordo distorto di ciò che non hai mai vissuto.
“La ritualità sta scomparendo e l’unico modo per ricostruirla è in maniera inventiva, non archeologica. Alcesti è stata l’effetto delle storture del sistema teatrale italiano: mi sono ritrovato a farla in un posto solo perché come compagnia indipendente non riesco ad andare in tournée senza perdere un sacco di soldi.”
Per questo Alcesti era rinchiusa in un ex carcere, perché il teatro in Italia è un sistema di leggi e abitudini che impediscono la libertà di muoversi?
“Se avessi trovato un luogo adatto allo spettacolo in un supermercato, l’avrei fatto lì. Il caso ha voluto che a Firenze lo spazio che ho reputato più adatto fosse un carcere, perché ricordava lo spazio della tragedia greca, era intimo e nel centro della città. Tutto era finalizzato a offrire alle attrici e agli spettatori una qualità dell’incontro che fosse alta.”
Le attrici, Daria Deflorian, Monica Demuru, Monica Piseddu e Silvia Franco, sembravano davvero in prigione, dietro le sbarre delle loro maschere e di movimenti ridotti al minimo.
“Tutti hanno l’idea che il mio teatro sia punitivo, però le attrici erano felicissime, insieme abbiamo trovato il modo di far provare loro sensazioni, esperienze e possibilità di un teatro nuovo. Qualsiasi recitazione è uno stile, tutte sono finte, anche la più naturalistica. È vero che io do i movimenti, che sono quelli e sono pochi, però non mi sono mai permesso, in tutta la mia carriera, di dare un’intonazione, di dire come andava recitata una battuta. La mia forma è molto forte, ma serve per liberare qualcosa di profondamente legato all’essere umano unico che c’è sul palco: tu vedevi la quintessenza di quegli esseri umani, non di quelle attrici.”
La loro vestizione in scena cominciava proprio dalla fascia intorno alla vita, considerata nell’antica Greca la sede del respiro e quindi, potremmo dire, dell’anima.
“Quando lo spettacolo ha funzionato (ogni sera è stato un buon spettacolo, ma non ha funzionato sempre) è riuscito ad accedere al piano del simbolico: quella fascia era tutto quello che dici te, riguardava la parte bassa del corpo, in Oriente una zona sotto l’ombelico molto significativa da un punto di vista dell’energia, ma era anche un accessorio per caratterizzare i vari personaggi, ognuno aveva una fascia di colore diverso. Quando Alcesti ha funzionato siamo arrivati a un incrocio di universi per cui ognuno ci leggeva quello che voleva. Il mio non è un teatro del montaggio delle attrazioni, in cui ogni due minuti cerco di dare qualcosa di eccezionale al pubblico, perché sennò si distrae. Soprattutto quando c’è un testo gli spettacoli si svelano alla fine.”
Ecco, alla fine Monica Demuru intonava una canzone di Lucio Dalla, Henna, in cui si dice “il dolore ci cambia”. Le attrici, però, non apparivano cambiate affatto: la sensazione era che avessero rappresentato il dolore solo esteriormente, senza averlo davvero provato.
“Non sono d’accordo. Le attrici mostravano il 30% di quello che accadeva dentro di loro, non potevano essere totalmente distrutte perché altrimenti sarebbero diventate l’oggetto dello spettacolo. Il risultato, lo scarto, il cambiamento si doveva vedere sul pubblico.”
La maturazione solitamente non avviene sull’attore, ma sul personaggio attraverso l’attore. Quello di cui parli sembra una sorta di realtà virtuale, una fruizione privata in pubblico, quasi un teatro subliminale.
“Subliminale non è una brutta definizione. Secondo me il mistero di Alcesti era questo: se era tutto rituale, se le attrici stavano sempre ferme e le loro voci non si rompevano troppo spesso, come potevo emozionarmi? Perché lo spettacolo doveva avvenire nella mia mente e nel mio corpo di spettatore.”
Perché proprio Alcesti?
“L’ho scelta perché ha un tema che in questo momento della mia vita è fondamentale: la morte. Essendo una tragedia non offre soluzioni, però è commovente il coraggio che ha avuto Euripide di dire: queste questioni sono insondabili, ma dobbiamo comunque sbatterci la testa tutti i giorni.”
Con la fortuna che in scena muore solo una maschera di noi.
“Certo, infatti, il teatro ti permette di giocare seriamente. Mi fai venire in mente che questo è l’unico senso che ha per me oggi: porci di fronte alle domande esistenziali, alle domande sull’essere umano in quanto tale nei confronti del mondo.”