VINCENZO SARDELLI | Una strada come tante, non lontano dai Navigli. Uno spazio anonimo di un incognito cortile milanese. Mezzi modesti, sala per pochi intimi. Bello tornare a Linguaggi Creativi e trovare che proprio nelle piccole realtà nascoste si continua a fare buon teatro. Come Chi non lavora non…, di Amedeo Romeo e Paolo Trotti, con gli stessi Romeo e Trotti rispettivamente in scena e alla regia.
Titolo che non ricalca alla lettera la canzone con cui Celentano e Claudia Mori vinsero Sanremo 1970. Chi non lavora non fa l’amore era disco controcorrente. Lasciava in stand by i laceranti conflitti ideologici, focalizzando una contrapposizione sociale e di coppia.
Qui Trotti e Romeo lambiscono gli Anni di Piombo per ripresentare una vicenda che dalla Repubblica di Weimar arriva ai nostri giorni.
Insofferenza, austerity, precarietà. Punto di partenza di Chi non lavora… è il romanzo di Hans Fallada, E adesso, pover’uomo?, Germania 1932. Punto d’arrivo è l’Italia dei giorni nostri. Senza forzature, va detto a merito degli autori.
Il monologo racconta le vicissitudini di un giovane commesso, di sua moglie e del loro bambino. Il protagonista, il quarantenne Giovanni, s’indebita per comprare a rate una vasca da bagno per l’amata moglie Ciuffetto. Ma i soldi non bastano mai. Il lavoro diminuisce, il licenziamento è alle porte.
Una famiglia come tante si ritrova alle prese con crescenti difficoltà economiche nell’imminenza dell’ascesa di Hitler. Dietro la trama in apparenza semplice – fare i conti con la vita di ogni giorno, la povertà crescente, le incertezze del futuro in un misto d’impotenza e di rassegnazione – si coglie il drammatico quadro sociale in un momento cruciale della storia della Germania. Ma tanti di noi potrebbero riconoscersi.
La vasca diventa simbolo di fallimento, di un sogno di vita futile. La disoccupazione è spettro di declino, fino alla minaccia della dignità. L’intuizione felice è d’inquadrare la crisi generale nella cornice di un romanzo sentimentale. È la grande storia, che s’interseca con le piccole storie personali.
Bastano pochi ingredienti scenici, due tappeti persiani, un vaso con una piantina, una poltrona, un abito femminile, una vasca appunto, un secchio, una cornice, a creare un ambiente borghese dimesso. L’acqua nel secchio e nella vasca, gli abiti bagnati, creano coreografie ambigue: è un uomo, un topo o uno straccio? È acquitrino, fogna?
Una riscrittura semplice e diretta, nessun virtuosismo. I soliloqui crudi e taglienti, a volte ripetitivi (ma non potrebbe essere altrimenti) diventano mantra tenero e amaro. La drammaturgia di frasi minimaliste, a volte nominali, traccia un procedere per quadri che nei temi, nelle atmosfere e nello stile attinge a piene mani al cinema neorealista, con citazione finale di Ladri di biciclette.
Le musiche esplorano le venature nostalgiche e mistiche della Germania tra Grande Depressione e Terzo Reich.
Desideri, debolezze. Storie anonime di persone comuni, piccole tempeste quotidiane. Le luci eclissate da romanzo psicologico sottolineano stati d’animo lacerati. C’è spazio pure per un gioco d’ombre.
Sottile è il crinale che conduce alla perdizione. La povertà si materializza nelle piccole rinunce, dalla macchina fotografica agli spiccioli per il tram.
Amedeo Romeo è un attore solo sulla scena. Affronta i fantasmi di una società allo sbando. Tra sogno e realtà, nel suo abito bigio, vede sfumare le speranze di una vita migliore. L’ansia diventa paura, poi angoscia.
Una storia senza età. Cambiano i tempi, ma alcune realtà non sono scalfite dal passare degli anni. Sopravvivono. Questo monologo così vero, con le sue sofferenze e i suoi sogni ingenui, ci parla di noi, del nostro bisogno sempre attuale di ricostruirci.