LAURA NOVELLI | Jeans e camicia bianca, un ragazzo e una ragazza si guardano negli occhi stando in piedi uno davanti all’altra; dondolano sulle loro scarpe da ginnastica Adidas, barcollano, si avvicinano, si baciano sfiorandosi, e ancora dondolano: così fragili eppure così veri, così eterni. Lei ha una viso già adulto e due occhiali che le ingrandiscono lo sguardo intelligente; lui un sorriso generoso, occhi lucenti e un caschetto moro che gli dà un’aria un po’ dannata. E’ con questa immagine teatralissima che i giovani Lorenzo Fochesato ed Erica Galante danno ali al loro innamoramento in uno dei passaggi più poetici del poetico Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei Padri firmato da Francesca Macrì (drammaturga e regista) e Andrea Trapani (drammaturgo e interprete) per il Teatro di Roma e andato in scena al teatro India nei giorni scorsi.
Lorenzo ed Erica sono due dei dodici adolescenti “reclutati” in diversi licei della capitale e allenati svariati mesi per raggiungere un traguardo che va ben al di là del debutto e che meriterebbe senza dubbio lunga vita. Perché attraverso Shakespeare e attraverso – tanto più – questa coraggiosa riscrittura della sua celebre tragedia, essi hanno potuto sperimentare cosa voglia dire realmente il teatro; quanto sudore, fatica, luminosa bellezza ci sia nel percorso che prepara la presenza in scena; quanta ginnastica ci voglia per formare i muscoli del corpo e del cuore; in quanti modi diversi – persino opposti – il teatro permetta di declinare le emozioni più universali. Che sono poi le emozioni proprie della loro età: la paura e insieme la forza dei sentimenti, la rivalità tra coetanei, l’incomprensione degli adulti, l’idealismo che li rende eroici, la disillusione che ce li fa apparire deboli. E poi la solitudine, l’istinto di schierarsi da una parte o dall’altra, quel silenzioso non saper cosa fare con cui spesso chiedono aiuto ai grandi o, viceversa, quel maldestro voler fare troppo con cui spesso credono di non aver bisogno di aiuto. E il teatro, il lavoro insieme, diventa allora anche una strada per conoscersi, per capirsi, per crescere con maggiore consapevolezza. Non per niente alcuni di questi dodici interpreti – oltre ai due protagonisti, è doveroso citare gli altri dieci: Emilio Airulo, Diego Benedetti, Sara Celestini, Mounir Derbal, Gaia Diodori, Paolo Leccisotto, Sara Mefodda, Martina Mignanelli, Antonio Saponara, Maria Sgro – li avevamo già visti in Culo di gomma, produzione nata all’interno del progetto Perdutamente con cui la compagnia Biancofango si era posta l’obiettivo di parlare dei ragazzi di oggi attraverso i corpi e le voci dei ragazzi di oggi. Nell’affrontare Romeo e Giulietta l’operazione si fa più compiuta, più raffinata, più complessa. A partire proprio da fatto che la partitura originale si presta a una lettura impietosa della famiglia, della distanza generazionale tra padri e figli, come se in fondo il dramma dei due giovani innamorati fosse causato proprio dalla miopia e dall’indifferenza di un potere (tanto più solenne nella voce registrata di Federica Santoro/il Principe) incapace di costruire dialogo e di elargire comprensione.
All’ingresso del pubblico, il palcoscenico, completamente vuoto se non fosse per due panchine e un piccolo tavolo posti sul fondo, è già diventato l’agone di una partita di calcio dove i corpi si scontrano e combattono. Le due bande rivali dei Montecchi e Capuleti non si fronteggiano dunque a furia di duelli e colpi di spada, bensì tirando il pallone ma su un campetto di calcio, metaforicamente assurto a simbolo pasoliniano di una stagione della vita in cui è quanto mai significativo vincere o perdere, rischiare o stare in panchina, resistere o uscire di scena. Laddove uscire di scena sta esattamente per morire (si veda l’uccisione di Mercuzio, quella di Tebaldo e la splendida scena del suicidio finale di Romeo e Giulietta): essere espulsi da quei padri/arbitri glaciali e lontani che con questi adolescenti, con i loro stessi figli, non hanno nulla da spartire, se non che un cartellino nero dai risvolti tragici.
Già, i padri. Chi sono qui i padri? Due attori più o meno quarantenni, Trapani (padre Capuleti) e Simone Perinelli (padre Montecchi), entrambi molto bravi per quanto diversissimi per stile e percorso professionale, che non recitano un ruolo, una parte: piuttosto, mostrano la loro storia/natura di attori (nervosa, inquieta e a tratti cinicamente sguaiata quella di Trapani; pacata, straniata e vagamente distratta quella di Perinelli) per andare incontro alla “naturalezza” dei giovani partner. Motivo per cui i due piani interpretativi – quello dei padri e quello dei figli – non stridono; semmai si incontrano, si completano. Ed è proprio questo incontro “formale” a garantire che lo scontro “sostanziale” sia violento e doloroso: Romeo cerca conforto in un genitore infantile capace solo di leggere il giornale e trangugiare merendine Kinder tutto il giorno; Giulietta in un padre/padrone torbido e viscido (oltre ai versi di una poesia di Gozzano, giunge qualche eco di Porco mondo e Fragile Show) che è pronto a sbatterla fuori di casa.
Unico adulto ammesso a gettare lo sguardo nella verità dei ragazzi è il violoncellista Luca Tilli, pregevole nel dare corpo musicale ai momenti salienti del lavoro (così come già faceva in Culo di gomma) ma anche a confondersi tra i personaggi come fosse un folletto buono, o un Pinocchietto silenzioso che vaga incolume per il campo, mentre il destino rotola dentro una palla. Un destino feroce con molti: ai versi di Dino Campana si affida l’intenso monologo di Rosalina/Maria e il suo pianto é il lamento di ogni abbandono, di ogni occasione perduta (sarà infatti lei a chiudere l’intera pièce); mentre sono le note della canzone Albergo a ore cantata da Gino Paoli ad accompagnare l’ultimo gesto eroico dei due innamorati infelici: quel volo ancora una volta leggero, dondolante, fragilissimo, con cui si accomiatano dal mondo per sempre. Ma è difficile credere che la loro sia realmente una sconfitta.
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