ELENA SCOLARI | Fiandre, 1914, dicembre. 24 dicembre. La vigilia di Natale in trincea. Le trincee della Grande Guerra sono terribili, sono piene di sangue, topi, fango, freddo, cadaveri, morte. Sono l’inferno. Un inferno popolato di ragazzini, anche adolescenti, sedotti dalla chiamata alle armi e dalla difesa della patria, spinti dai loro professori ad arruolarsi per contribuire alla gloria (o alla disfatta) del proprio paese, pena l’etichetta di codardo.
Proprio come in All’ovest niente di nuovo (film del 1930 diretto da Lewis Milestone, splendido e straziante) cui La tregua della compagnia Anfiteatro di Como fa un implicito omaggio, lo spettacolo ci racconta la gigantesca stupidità di un conflitto crudele anche perché mal gestito, male organizzato, nel quale i soldati sono stati letteralmente mandati a morire, a mucchi.

Marco Continanza è in scena solo, maglietta e pantaloni, recita davanti a un infernale fondale rosso sangue che riproduce una grande combustione di Alberto Burri, simbolo incombente del bruciare delle speranze e dell’enorme sprofondo di ogni guerra. Anche le luci di scena sono rosse, e l’attore risulta un po’ sovrastato da questo impianto scenico, le sue parole irrompono nella pace della sala con sufficiente carica drammatica, l’occhio è invece inevitabilmente attratto dal fondale, e la sua presenza magnetica tende anzi a depotenziare l’irruenza del testo, ben scritto da Pino di Bello.
L’autore riesce a bilanciare le note dolorose di una descrizione di guerra difficile da sopportare, faticosa da immaginare, con la tenerezza dell’episodio centrale su cui lo spettacolo si concentra: sul confine tra Francia e Belgio i soldati tedeschi sono davanti a quelli inglesi (scozzesi e irlandesi) da mesi, su entrambi i fronti logorati da bombardamenti ininterrotti e dal continuo susseguirsi di attacchi e ritirate. Nella notte di natale del 1914 un tedesco sente la festa più forte della guerra e improvvisamente intona “Stille nacht”, dapprima il silenzio lo circonda ma poi lo spirito – forse anche grazie al cognac recapitato coi pacchi natalizi – contagia i suoi commilitoni, e poi anche gli inglesi si uniscono al coro, tutti cantano. Tutti cantano la stessa canzone e per qualche ora gli ordini di non familiarizzare col nemico vengono ignorati, si suona insieme, si parla, si mangia cioccolato e si fumano sigari, si gioca a pallone con le porte segnate da barelle ed elmetti, senza guardare alle uniformi. Natale è Natale.

L’interpretazione di Continanza ci aiuta in una lettura pulita di questo episodio perché è intensa ma non enfatica, a tratti perfino divertita ma sempre attenta al senso del racconto.
1914 La tregua ha il merito di affrontare un fatto significativo della prima Guerra Mondiale in una maniera drammaturgicamente ben congegnata, anche pensando ai giovani spettatori. Nei tre anni e mezzo di guerra furono scritti quattro miliardi di lettere e di cartoline, di cui oltre due miliardi indirizzate dal fronte al paese, una cifra stupefacente, l’inserimento di alcuni di questi messaggi nella narrazione costruisce un’alternanza che dona ritmo alla durata, leggermente dilatata, dello spettacolo.

La vicenda è focalizzata su un soldato in particolare, Alexander Mayer, perché concentrarsi su una persona rende più facile l’immedesimazione, altrimenti impedita dalla genericità dei “milioni di morti”, viene detto. E sarebbe meglio non dirlo, al pubblico. I trucchi che funzionano non si svelano…

Esaurito lo zucchero dei pandori 2014 cerchiamo di riflettere col nostro solito cinismo sentimentale: c’è retorica in questa Tregua teatrale? Un tantino, ma in giusta dose, in fondo. Qualche vezzo c’è ma i fatti narrati sono effettivamente straordinari e sentiamo un sollievo onesto per questo squarcio di umanità.
C’è chi trova stucchevole la melassa versata su una sola notte senza morti quando già il giorno dopo tutti sono tornati a obbedire, combattere e uccidere. Vero. Ma quelle ore hanno mutato lo sguardo di chi le ha vissute, i soldati hanno agito con una consapevolezza nuova, a tutti si è schiarita la vista e più chiara è apparsa l’irragionevolezza di sparare ad altri uomini, di altri schieramenti, sì, ma più vicini di quanto non fossero i propri generali, anestetizzati dal dovere militare e dal superficiale rigore con cui si erano costretti ad agire. E’ già qualcosa.