GIULIA RANDONE | “Patria oppressa! il dolce nome/No, di madre aver non puoi,/Or che tutta a figli tuoi/Sei conversa in un avel”. Un canto sommesso fa emergere dalla penombra il coro e l’orchestra. I due gruppi si trovano alle estremità del palco, voci e strumenti si incontrano idealmente nel buio al centro della scena. Per un istante tutto tace. Poi i violini annunciano la dissoluzione del coro, sostituito da tre donne che cantano terrorizzate, sotto la minaccia di una sciabola. La luce vira al rosso, svelando un palco fatto di lamiere, sul quale danzano con movimenti meccanici tre figure in completo elegante da uomo, i volti mascherati, in testa un caschetto da cantiere. Nel nuovo Macbeth del regista sudafricano Brett Bailey le streghe responsabili di aver inoculato nell’uomo la brama di potere sono le disumane multinazionali che hanno finanziato le guerre civili e schiavizzato la popolazione locale per appropriarsi delle risorse minerarie del Congo. Le note dello xilofono ritmano la danza macabra di questi uomini d’affari, che dal ponte di comando manovrano a proprio vantaggio la nave di uno stato africano sprofondato in un abisso di violenza e corruzione.
La patria oppressa è dunque il Congo, al contempo una delle terre più ricche e uno dei paesi più poveri del mondo. Un grande schermo sullo sfondo esplicita e precisa i riferimenti cronachistici – l’entità dei massacri, il numero di schiavi nelle miniere e di rifugiati, le date del conflitto tra Repubblica Democratica del Congo e gli eserciti di Rwanda e Uganda – e assegna un’identità fittizia ai membri del coro. In un raddoppiamento di finzione, i cantanti-attori sudafricani della compagnia Third World Bunfight diventano così rifugiati congolesi impegnati a mettere in scena la tragedia di Macbeth perché convinti della sua aderenza alla propria storia.
Come nell’opera di Verdi, di cui Fabrizio Cassol opera un vivace adattamento permeato di sonorità africane, l’azione drammatico-musicale procede per blocchi chiusi, proponendo una sequenza di tableaux vivants. Due giovani uomini tirano fuori da una scatola, consegnata dalle streghe, gli abiti che li trasformeranno in Macbeth (Owen Metsileng) e Banco (Ebenezer Sawuli), inaugurando la scalata al potere dei coniugi Macbeth. Morto re Duncano, Lady Macbeth (una potente Nobulumko Mngxekeza) sistema sul capo del marito una corona di pelle a forma di pugno chiuso, che sigilla la sua stupefacente trasformazione da ragazzo ad adulto. Un adulto infantile e volubile.
Più si accresce il potere della coppia, più le loro azioni diventano volgari e meschine. La metamorfosi coinvolge anche il linguaggio di questo Macbeth in veste contemporanea che, sostituendo i messaggeri con i messaggini e i “Ciel!” con i “Fuck!”, si conquista l’attenzione e le simpatie del giovane pubblico che affolla la sala. Dopo aver comandato l’uccisione di Banco, Lady Macbeth trasforma il palchetto di lamiere in una tribuna dalla quale, con potenza da soprano, impone la propria visione del mondo. Poi intona la celebre aria “Si colmi il calice” accompagnandola con un balletto da video pop che, grazie a mossette sexy e smorfie ammiccanti in coppia con il marito, strappa risate a tutto il pubblico. Divertenti lo sono per davvero, e per un attimo ci si dimentica che, nella loro crudeltà, stanno danzando sul cadavere di Banco e di molti altri africani.
I tre interpreti principali – e in particolar modo Mngxekeza, alla quale è affidato il personaggio più complesso dell’opera – si segnalano come cantanti-attori dotati di un’eccezionale organicità, in grado di armonizzare canto e movimento.
Ciò che non convince, invece, è l’uso che Bailey fa dello schermo come dispensatore di informazioni. Quasi a voler aggiungere una verità che si opporrebbe alla finzione, dichiarata, della performance. Troppo è detto, troppo poco è lasciato alla libera, individuale, ricomposizione che lo spettatore fa di ciò che sente e vede. Il canto, ben sostenuto dalla corporeità degli interpreti, sarebbe bastato; la reinvenzione musicale eseguita dalla No Border Orchestra sarebbe bastata. Invece Bailey abusa dello schermo, peraltro già carico di animazioni digitali, per inserire nelle scene legate al primo livello di finzione (in cui gli attori interpretano i rifugiati congolesi) immagini scattate da due celebri fotoreporter per documentare lo sfruttamento della manodopera minorile in Congo.
E quando lo spettacolo si chiude sull’immagine degli occhi di un bambino lo spettatore si sente ingannato, catechizzato, costretto a concordare con una verità organizzata in partenza. Ovvero il contrario di ciò che dovrebbe fare il teatro.