GIULIO BELLOTTO | Fratello, volevo dire fratello. Sarah è di fronte a Robert, nel chiarore della scena. La luce filtra tra le poltrone del Filodrammatici; il dottor Gregory Dudden, psichiatra specializzato in disturbi del sonno, si sporge dalla balaustra della galleria e s’insinua tra l’uomo e la donna. E questo come la fa sentire?
Come attraverso un vetro, oltre lo schermo semitrasparente che ci separa dagli attori, vediamo dibattersi tre caratteri: la follia fredda e quasi meccanica della dottoressa Cleo Madison e le sue movenze da automa shelleyniano aprono lo spettacolo, seguiti dalla pazzia lucida e un po’ sognante di Sarah, la donna addormentata sulla sedia lì a sinistra. Sarah è narcolettica, forse lesbica. Robert è invaghito di lei, al punto da rinunciare a se stesso e alla propria mascolinità.
Sono tre realtà mentali differenti che si incontrano e si confrontano tra tempo e spazio fin nelle loro più intime e peculiari ossessioni. Gli occhi di chi le osserva incrociano altri sguardi, oggetti di fobie come le rane e simboli del desiderio quali Sandman, l’uomo del sonno che versa sabbia sugli occhi dei bambini. La complessità del romanzo di Johnatan Coe, da cui è tratto lo spettacolo, viene ricondotta ad un unico elemento: l’inconoscibilità dell’Io dei personaggi, che come un vapore sospeso confonde la scena.
Lo sguardo degli spettatori passa attraverso il telo di proiezione e approda ai contorni fumosi dei corpi in scena, poi torna a soffermarsi sullo schermo: le parole e i suoni corrono e si rincorrono veloci tra immagini e scritte. La riflessione del dottor Dudden si erge al di fuori dello spazio teatrale con l’autorità dell’unico dato di certezza in questo panorama confuso e sognante. Ma è vero che il sonno è la malattia che lui descrive? Dormire è davvero l’anticamera della morte, una condizione patologica in cui si perde il senso della realtà?
Il telo su cui per tutta la durata dello spettacolo sono stati proiettate le immagini dell’amore di Robert e della malattia di Sarah la pazza è stato appena strappato. Dietro quello schermo l’androgino che prima era Cleo, efficacemente caratterizzato da un’enigmatica Irene Serini, ora espone la fragilità di Robert al pubblico e alla stessa Sarah, senza più alcuna mediazione ma non per questo risultando più autentico. La composizione registica di Filippo Renda, raffinata ed evocativa, affascina e incuriosisce ma è anche difficile da inquadrare in uno stile preciso: è stata paragonata ad un giallo psicologico, ad un thriller clinico o ancora ad una graphic novel teatrale.
In realtà lo spettacolo, liberamente tratto da La casa del sonno, assomiglia molto di più ad una costruzione che da costrizione iniziale si destruttura e raggiunge la sua forma più essenziale. Oltre il vuoto lasciato dallo schermo, al tempo stesso specchio e finestra sull’inconscio, si apre lo spazio del ricordo, la ricostruzione labile e sfuggente della memoria; quando ancora sul promontorio si ergeva Ashdown, dormitorio per studenti in cui le vite dei quattro ragazzi si intrecciano per la prima volta; quando Gregory vi costruì la sua clinica del sonno, luogo di cura quanto casa degli orrori; quando infine la vicenda sembra trovare una conclusione. Tutto è attentamente vagliato anche attraverso il gusto metafisico e surrealista delle osservazioni cliniche sul caso di Sarah, resa ingenua e fin troppo neutra dall’interpretazione di Alice Redini. Il risultato finale è una netta contrapposizione di proiezioni e interventi recitati che danno origine ad un’inquietudine straniante al cui singolare fascino è difficile sottrarsi.
Avresti potuto essere mia sorella, confessa Sarah a Robert e queste parole hanno la consistenza di un riepilogo, una summa del loro vissuto, una epigrammatica sentenza. Fratello, volevo dire fratello, si corregge poi davanti a Gregory, il suo analista. Così, con un lapsus che trascina con sè tutta una serie di dubbi e domande, si conclude la pièce.
L’annullamento della dimensione temporale a favore del libero fluire soggettivo dell’inconscio rende necessariamente monotono lo spettacolo, che soffre della mancanza di appigli realistici a favore dell’esasperata introspezione che poi costituisce anche il suo più grande punto di forza e la sua originalità. Eppure questo unico binario, per quanto mono-tono possa apparire, è coniugato con grande perizia da tutte le componenti sceniche. Le luci soffuse, le due gabbie simmetriche che compongono la scenografia, la semplicità degli accorgimenti registici accuratamente studiati, tutto concorre a offrire un’impressione forte e pregnante in cui la mise en scene prende valore e acquista significato proprio, configurandosi come atto d’arte autonomo dal romanzo da cui prende le mosse. E, si è felici di constatare, altrettanto valido ed emozionante.