FRANCESCA GIULIANI | Brigitte e Paula: due terrificanti bambole di pezza a misura umana. Heinz ed Erich: due teste di gomma. L’Austria: montagne di scatoloni sovrapposti. La fabbrica, le case: prigioni di cartone. Il paesaggio in toto: protuberanza scenica degli abitanti. Sono questi gli elementi che Teatrino Giullare sceglie per esemplificare sulla scena l’immaginario che affiora dal romanzo di Elfriede Jelinek, Le Amanti. La trama è semplice. In una piccola cittadina di provincia due donne crescono e si sposano: Brigitte cuce reggiseni aspettando Heinz, l’uomo che la libererà dal suo ruolo di figlia e operaia per gettarla in un’altra schiavitù; Paula è una quindicenne che, nel tentativo di emanciparsi dalla famiglia con il lavoro, s’innamora di Erich e resta impigliata nel ruolo di moglie e madre. Sul palcoscenico sono sparsi contenitori di cartone sui quali si aprono finestre che mostrano i brandelli dei membri delle famiglie protagoniste: maschere di teste di gomma trasfigurante dalla violenza. In scena Enrico Deotti veste i panni di quell’amore dal volto scuro che da filo rosso del romanzo si fa servo di scena alle azioni dettate da Giulia Dall’Ongaro. Di questa storia è lei la narratrice, quasi personificazione della scrittrice stessa. Scandita dal suono di una penna a scatto che apre e chiude continuamente fra le mani per riprodurre il ticchettio della macchina da cucire, simbolo della vita lavorativa delle donne, dà ritmo al racconto.
Inserito all’interno di “Focus Jelinek”, festival ideato da Elena di Gioia, ospitato dal Teatro degli Atti di Rimini, il nuovo lavoro della compagnia bolognese s’inserisce all’interno del loro particolare percorso di ricerca nel teatro di figura. Dopo aver messo in scena i testi di Beckett, Bernhard, Koltès, Pinter con attori artificiali, Teatrino Giullare sceglie di affrontare questa volta non un testo drammatico ma un romanzo. In Le Amanti, però, rispetto ai precedenti lavori della compagnia, si nota un differente livello d’influenza tra gli attori e i loro doppi, una non omogeneità che genera una sorta di lontananza tra il racconto e la scena. Non c’è, se non a tratti, con alcuni oggetti per esempio, quell’interazione precisa e calibrata che distingueva la loro particolare ricerca scenica, nonostante il testo della Jenelik sembri riassumere quelle caratteristiche che identificavano le precedenti figure messe in scena dalla compagnia attraverso gli attori artificiali. Come là, anche qui, nel mondo della Jelinek – come scrive Massimo Marino in Parole Jelinek. Teatro, articolo apparso su doppiozero – siamo all’interno della sfera post-drammatica. Non ci sono azioni. Ci sono macerie. Non ci sono personaggi. Ci sono figure, spesso bloccate fisicamente, che nel procedere della narrazione perdono anche il nome. Sono figure svuotate di senso, immerse nella desolante insignificanza dei sentimenti, indifferenti come pezzi di legno marcio che quasi ricordano i personaggi di Alla Meta di Bernhard. Sono personaggi sgangherati, da far funzionare, imboccati come rospi e che dettano legge – come nel Finale di partita di Beckett dove Hamm e Asma si sovrappongono fino a confondersi. Su quello che resta di una società strumentalizzata dal consumismo agiscono le parole che l’autrice austriaca scrisse nel 1975 e che nel romanzo risuonano ancora oggi così potenti nel tradurre con ironia il baratro quotidiano di vite impigliate in cliché sociali dai quali sembra impossibile sfuggire.
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