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Foto Angelo Maggio

RENZO FRANCABANDERA | Polvere nasce forse prima di tutto dall’intenzione da parte di Saverio La Ruina, attore e regista di primissimo livello del teatro italiano, di deviare dalla strada del monologo che ha contraddistinto il suo lavoro nell’ultimo decennio: premi e riconoscimenti innumerevoli per un’attività che ha tracciato un segno nel teatro italiano e nella sua vita stessa. Lui. Le luci. Il palcoscenico e nient’altro.

Primo atto di una personale a lui dedicata dal Teatro dell’Elfo, Polvere ha debuttato a Milano all’interno di una trilogia che ripropone assieme ai classici Dissonorata e Laborto, questo nuovo esito, che vede l’artista (promotore insieme a Dario De Luca di Scena Verticale, la maggiore realtà di teatro indipendente in Calabria) in scena con Jo Lattari, attrice e studiosa cosentina, attiva in modo polivalente nelle arti. La regia è di La Ruina stesso, come pure il testo, alla cui stesura la Lattari ha collaborato.

La fruizione dello spettacolo ovviamente è alimentata dalla grande curiosità di questo cambio pelle di La Ruina, dopo gli anni in solitaria.

Come nella tradizione dei suoi spettacoli la scena è povera: di fatto una serie di ambienti delimitati da rettangoli di luce, uno anteriore, che disegna un immaginario soggiorno con cucina dell’appartamento di lei, quasi un quadrato con dentro un tavolo, due sedie e un quadro di colore rosso. Dietro alla immaginaria stanza, un rettangolo vuoto, più stretto, quasi una stradina, che occupa il fondo della scena in modo pressochè totale. Ed è qui che inizia lo spettacolo, con i due che escono dalla festa di un amico. Lui nervosetto e un po’ impositivo, lei dolce e in attesa di conferme. Lui inizia a punzecchiarla con piccole schegge di gelosia, che rivelano per un verso la sua insicurezza, per altro il suo bisogno di affermazione sulla personalità della donna, di cui nell’evolvere della vicenda testerà, con sempre maggior aggressività, la fragilità.

Infatti lo schema drammaturgico è proprio questo: un rapporto fra i due con le psicosi di lui che iniziano ad avvolgere la donna, già oggetto anni prima di una violenza sessuale a Roma, con telefonate e domande insistenti, che si avvicinano progressivamente a quelle dinamiche di stalking e violenza fra mura domestiche di cui la cronaca non ci lesina declinazioni empiriche.

Il testo si sviluppa quindi, con un linguaggio reale e mai aulico o poetico, in questa direzione, fra ripetizioni manicali, toni di lui che si riscaldano via via, per arrivare alle soglie della violenza, mentre lei copre il suo vestito giallo allegro con un maglione marrone pesante, stacca dal muro i quadri che a lui non piacciono (perchè declinerebbero una sua sensualità provocante), accetta interrogatori e insistenze di tono poliziesco, fino ad arrivare al primo ceffone. Tutte cose che ufficiali di pubblica sicurezza o assistenti sociali da nord a sud Italia hanno ben presente, insomma, nelle mille denunce quotidiane di questo genere di rapporti.

Il resto non è dettagliato nell’ora e un quarto di pièce, ma evidentemente traccia quel profilo di relazione che si ammala dell’insistita presenza di un soggetto ossessivo che costringe il partner in una dimensione di reclusione e violenza psicologica, prima ancora che fisica. Su questo aspetto il pubblico, coinvolto in modo profondo nella vicenda, legge in maniera consapevole e partecipe quello che accade sul palcoscenico e lo relaziona in modo proprio con il quotidiano, il vero.

La Lattari, pur evidentemente emozionata in questo debutto certamente “pesante”, ha un’umanità che regge l’impatto della scena e può crescere nel rapporto con La Ruina proprio con l’aumentare della sicurezza nei propri mezzi.

Nel confronto con l’opera di La Ruina, rispetto al quale è certamente discontinuo per diverse ragioni, quello che appare meno tridimensionale in Polvere è il testo, che cerca di tracciare il progredire, lo scivolare nella dinamica malata, ma che ha, nel sentimento di chi scrive, una prevedibilità maggiore e una pericoloso avvicinamento più ad una sorta di costellazione psicologica che alle tragicità surreali del teatro in-ya-face di matrice british, o del teatro verista ma poetico che La Ruina ha percorso con i suoi monologhi.

Il punto di vista che personalmente ho sul teatro è che quest’arte possa trarre spunto dal reale, anche replicandone le dinamiche, ma che il gesto artistico debba poi portare lo spettatore ad un livello astratto e ulteriore. Qui il tentativo è che lo spettatore viva e sia costretto all’ossessione delle domande di lui a lei.

Sentire, tuttavia, il vicino di sedia anticipare quasi in modo letterale le battute può essere un segno, diciamo così, periglioso, sintomo di una certa prevedibilità che effettivamente la drammaturgia ha, per come è scritta ora; e di cui resta prigioniero un po’ anche La Ruina, da sempre abituato a far immaginare macchine per cucire che non ci sono, sguardi di crocicchi di uomini all’angolo del bar nel paesino meridionale incollati alle gambe delle donne.

In Polvere, se per un verso i personaggi raccontano se stessi con un approccio che ha una capacità descrittiva molto forte, l’affaccio sul poetico risulta meno tangibile. La scrittura proposta al debutto non sembra aiutare in questa direzione La Ruina, forse comunque necessaria, di uscita dalla gabbia del monologo, del modulo, per così dire, del teatro di narrazione. Manca per paradosso proprio quella vibrazione polifonica e drammatica che aveva contraddistinto i “solo” di La Ruina.

L’artista si sfida in una realtà scenica in cui l’immaginazione del pubblico viene sollecitata con battute rivolte ad un ulteriore presenza, e per certi versi questo esplora un territorio in cui forse La Ruina stesso deve ritrovare temperatura dopo gli anni con la sola sedia, l’uomo sul palco, al centro. Polvere è uno spettacolo in cui l’equilibrio dovrebbe invece maggiormente correre avanti e indietro fra i due soggetti, non concentrandosi su nessun vero fulcro, essendo il cuore del tutto proprio nel beccheggiare fra le due debolezze chiuse nella relazione perversa.

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