AriannaVINCENZO SARDELLI | Una città amorfa, sperduta, sfigurata da malavita e corruzione. Qui città di M., testo di Piero Colaprico, regia di Serena Sinigaglia, con una versatile Arianna Scommegna in scena al Teatro Binario 7 di Monza, è uno spettacolo la cui genesi risale a dieci anni fa. Racconta la trasformazione e il degrado di una metropoli che si sentiva locomotiva d’Italia, e si ritrova col fantasma della propria identità. M. sta per Milano. M. si adatta al sussiego di qualunque altra metropoli. Richiama un sottofondo putrido.

Quella di Colaprico, scrittore e inviato di «Repubblica», è una storia che sembra scritta ieri. Il paesaggio metropolitano è ancora un acquitrino di tangenti, mafia e disumanizzazione.

Brava Serena Sinigaglia a costruire la pièce sull’abilità multiforme di Arianna Scommegna. Il premio Ubu 2014 si destreggia tra sette personaggi. Sono tre poliziotti: un ispettore, una sbirra pugliese con un figlio fragile, un giovane che lavora alla scientifica e sguazza tra larve e reperti cadaverici. Poi ci sono un anziano tassista milanese, un capocantiere bergamasco, una giornalista cinica malata di scoop e l’uomo dell’obitorio che si compiace della moria di umani.

Qui città di M. è un noir, un’inchiesta con tanto di suspense in una metropoli indecifrabile, dove non si ascolta e non si respira.

La scena è un cantiere sciatto, sottosopra, tra lenzuola, secchi di vernice e scie rancide. Un goffo capocantiere, casco giallo e tuta verde, venale e mezzo razzista, sorprende il pubblico in sala a luci accese. È il corifeo che dà il la agli eventi. Inizia il valzer dei personaggi. Tra un cambio d’abito e una canzone di Mina, siamo trascinati in una storia ingarbugliata e inquietante.

Due cadaveri sono rinvenuti in due scatole di cartone in un cantiere alla periferia di Milano. Subito dopo compare un terzo cadavere, sbattuto in faccia allo spettatore attraverso un lenzuolo grondante sangue che si alza sul palco, come un bue al gancio di un macellaio. È un rebus, tante scene, poca narrazione.

Il motore della storia è l’ispettore Bagni. La sua scorza indurita dal mestiere e dagli anni rivela quel po’ d’umanità che manca agli altri personaggi, indaffarati tra i palazzi indifferenti. Tra toni ironici e angosciosi, oscillazioni fiabesche e tetre, Arianna Scommegna riempie il palco in lungo e largo. È un andirivieni di sorprendente eclettismo, un approfondimento senza fiato di questo e quel personaggio. L’attrice cambia voce e volto, abito e acconciatura. Catapulta il pubblico nelle trame di una vicenda sordida.

La regia, geometrica, interferisce il meno possibile. Carica le atmosfere di luci raggelanti e suoni cupi. Invano la Scommegna cerca un appiglio nei brani più famosi di Mina, interpretati con voce graffiante. Il freddo prevale, quello di un cantiere d’inverno, di gente che dirige lo sguardo altrove. Echeggia a tratti, sullo sfondo, il Requiem di Mozart.

Il rischio in questo intrico di vicende, in questo viavai dell’attrice sul palco, è che lo spettatore si perda. Seguiamo Arianna e il suo filo, la sua performance e le sue metamorfosi, sprofondiamo sempre più nei meandri del labirinto.

Forse non è un male. Fissiamo le pareti sporche di una città devastata da politica e finanza, le brutture dietro il velo dell’ipocrisia. Il rebus si compone con qualche incertezza. Ma il target su una città viscida, sempre più da incubo, sempre meno da sogno, è centrato perfettamente.

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