VALENTINA SORTE| Se è vero che “l’intelligenza della scrittura è superiore all’intelligenza dello scrittore” e che proprio per questo la traduzione di un testo permette di comprenderlo meglio perché lo apre ad altre possibilità – come dichiarato dallo stesso Pau Mirò – a Enrico Iannello va senz’altro il merito di aver fatto scoprire al pubblico italiano il giovane autore catalano. Ha infatti tradotto nel 2007 “Plou a Barcelona”, diventato poi Chiòve, e ora “Els jugadors”, ovvero I giocatori (Premio UBU 2013 come miglior testo straniero), di cui ha curato anche la regia.
Contrariamente a quanto potrebbe far pensare il titolo, il gioco a cui si allude non è tanto e solo quello d’azzardo (anche se la partita a carte tra i quattro è il leitmotiv della pièce), ma soprattutto la capacità di mettersi in gioco e di rischiare tutto. Almeno una volta. Nonostante o proprio in nome di tutte le sconfitte personali e di tutti gli smacchi subiti dalla vita, la rapina finale varrà come una sorta di riscatto collettivo. Forse. La scena di certo non lesina sulle loro debolezze: il barbiere (Luciano Saltarelli) sopporta i tradimenti della moglie e le tiene nascosto il suo licenziamento pur di non essere lasciato; il Professore (Renato Carpentieri) in piena rielaborazione del lutto per il padre scomparso, perde la testa e aggredisce un suo studente; l’attore (Tony Laudadio) non viene mai scritturato e trova più adrenalinici i furti al supermercato; infine lo “schiattamuort” (Enrico Iannello) si innamora di Irina, una prostituta ucraina, ma è incapace di confessarle il suo amore.
La dimensione “ludica” dei jucature si traduce anche nell’agilità dei dialoghi, ricchi di giochi di parole, battute brevi e pungenti (anche se in alcune occasioni troppo inclini e “chine” alla risata). La regia di Iannello esalta senza dubbio il testo, calibrando entrate e uscite e accostando alla comicità delle battute, la comicità delle situazioni. L’avvicendarsi delle varie sventure dei quattro amici segue l’avvicendarsi delle diverse scene, da quelle più intime a quelli più corali. L’effetto non è quello della successione nella linearità ma al contrario un senso di circolarità. La scenografia, anche se abbastanza semplice (un tavolo e qualche sedia, una poltrona, un giradischi e un frigorifero), è più realistica e curata nella scelta di alcuni elementi-chiave della vicenda come la moka, la bottiglia di brandy, il mazzo di carte e la tovaglia a quadri. Oggetti che raccontano – quasi una seconda lingua – la familiarità e l’intimità di quel luogo. E proprio attorno al tavolo ruotano, ogni volta su una sedia diversa (fisicamente e metaforicamente), le vite e le zingarate di questi “soliti ignoti”. Come se allo stesso tempo tutto e niente si muovesse. Una sorta di movimento nell’immobilità, un’inettitudine permanente.
Non è un caso allora che di fronte a una vicenda senza riferimenti geografici precisi (l’originaria Barcellona vale quanto Napoli) e con dei personaggi senza nome e senza età, l’unica collocazione possibile e per questo ancora più potente è quella linguistica. La lingua napoletana – tanto schietta e tagliente, quanto vivace e poetica – diventa la geografia esistenziale dei quattro personaggi e riesce a restituire in toni leggeri e divertiti, seppur con delle punte amare, le loro vite marginali, fatte di disavventure e fallimenti. Una lingua sicuramente debitrice a Eduardo e alla tradizione napoletana ma anche innovatrice e spuria, contaminata dal linguaggio televisivo e da incursioni più contemporanee.
L’interpretazione risulta molto convincente. Azzeccata la scelta registica di affidare il ruolo del professore a Renato Carpentieri, che in virtù della sua età anagrafica diventa quasi una figura paterna, rendendo più interessante il rapporto con le altre generazioni: gli amici e il di lui padre (recentemente scomparso). Azzeccatissima la balbuzie che accompagna il becchino e assente nel testo originale. Oltre a essere una prova d’attore per Iannello, questo difetto sposa perfettamente – insieme ad altri tic – la fragilità del personaggio e smorza i toni più gravi dello spettacolo.
Anche se il finale risulta un po’ pasticciato, l’adattamento è ben riuscito. Risulta brioso e piacevole. Ci si affeziona facilmente a questi giocatori strampalati e infatti, nonostante il copione reciti ad un certo punto “non sopporto l’ipocrisia del mondo del teatro. Mi pare più onesto rubare al supermercato: l’emozione è molto più pura”, la risposta del Franco Parenti sembrava calorosa e sincera.