VINCENZO SARDELLI | Il carcere nella testa. Anche quando sei fuori. Perché la libertà è una condizione dell’anima. E il dolore è esperienza che plasma, assoggetta: campo gravitazionale che lega in un solo destino le persone che l’hanno condiviso.
Questa immensa notte, drammaturgia dell’inglese Chloë Moss, regia di Laura Sicignano, è lo spettacolo di Cargo Teatro di scena fino all’8 febbraio al Filodrammatici di Milano.
Quel che resta di una vita. Due compagne di carcere si ritrovano fuori, nel ménage quotidiano. Solo che il ritorno alla libertà è più prosaico di quello immaginato dietro le sbarre. E può capitare nel frattempo di perdere un figlio, un uomo, un lavoro. «Io dico che queste mura sono strane: prima le odi, poi ci fai l’abitudine. E se passa abbastanza tempo, non riesci più a farne a meno […] È la tua vita che vogliono, ed è la tua vita che si prendono. La parte che conta, almeno». Sono parole del film Le ali della libertà, altra vicenda di carcere e alienazione.
Questa immensa notte è una storia di donne e naufragi, speranze e abbandoni. Di brocche sbilenche. E stomaci che ululano. Due fallimenti non si sottraggono, si sommano. E il precipizio è da paura.
Scontata la detenzione, Loredana (Orietta Notari) esce alla ricerca di Mary (Raffaella Tagliabue). Ma una volta fuori, non si può avere lo stesso rapporto con qualcuno con cui si stava rinchiusi venti ore al giorno.
Vite che provano a sfrattare l’angoscia. Come il monolocale di Mary, bottiglie vuote e lattine strizzate sulla moquette, poltrona, materasso, sedia d’ospedale. Puzza di sigarette, vomito, sogni accartocciati. Eppure la speranza resiste, alito di vita. La scena (di Laura Benzi) è un interno domestico degno di un quadro di Hopper: colori sbiaditi, spazio deserto, metafisico. C’è un senso d’inquietudine. Le pareti, grate trasparenti, creano geometrie sfiorate da luci basse, fredde, volutamente artificiali. Come i taglienti effetti sonori di fondo, metallici, tra una sequenza e l’altra segnata da cambi d’abito a vista (i costumi sono di Maria Grazia Bisio).
Lori e Mary non colmano il vuoto dell’anima. Le urla non rompono il silenzio: che fatica ritrovare umanità e amicizia, superare estraneità e incomunicabilità. Gli sguardi e gli atteggiamenti a volte escono dallo spazio scenico, si rivolgono a qualcosa che lo spettatore non vede. Dipingono il silenzio. Le due donne si appartengono, prigioniere nella libertà, incastonate in un quadro, prive di movimento indipendente.
C’è tensione nelle attrici, chiamate a spogliarsi del teatro, a entrare nella dimensione spersonalizzante del carcere. Che cancella persino ogni traccia di femminilità. L’abbrivo è stentato: battute artefatte, recitazione impostata, gesti improbabili. Perfino il lessico non convince, privo com’è d’inflessione. Loredana è una cascata di parole. E la regia sembra mancare di ritmo. Sembra. Perché in realtà le attrici si liberano. Si lasciano attraversare da quelle sbarre invisibili. È un “climax dell’identità”: Orietta e Raffaella, sempre più credibili nei panni di Loredana e Mary. Attimo su attimo, fioccano le emozioni. Fino a quel ballo forsennato, struggente, tra risa, lacrime e alcol. Mentre il rimmel cola dalle pupille di Mary, sotto la pioggia di note di E dimmi che non vuoi morire, leitmotiv ossessivo e liberatorio.
Mary e Loredana: sexy la prima; in tuta, in fremito, con borsone da discount, la seconda. Collezioniste di ricordi. Resti di una vita senza centro. Sopraffatte. Incapaci di rapportarsi agli altri. Con gli atteggiamenti del corpo e i tratti facciali che indicano l’attitudine al sacrificio. Esistenze scialbe, senza identità né autorevolezza. Con l’angoscia dei reati che le hanno inchiodate a una vita senza nerbo. Custodiscono come vestali quel barlume di fuoco vitale, di spirito progettuale. Sono figure cariche di significato simbolico, assorte nei pensieri, solitarie, in attesa, inaccessibili. Commoventi, non necessariamente perdenti.